Evo Morales a tutto campo, da quello politico a quello calcistico. Nel suo viaggio in Italia, il primo presidente indigeno della Bolivia non si è risparmiato niente: dall’Incontro mondiale con i movimenti popolari e con papa Francesco, a quello alla Sapienza con studenti e docenti, al «Dialogo sulla nutrizione» del G77 alla Fao, passando per la partita allo stadio. Un presidente col vento in poppa orientato dalle cifre: quelle della sua terza rielezione a grande maggioranza e quelle della crescita economica, santificate dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca mondiale.

Quanto basta per spingere anche i grandi media ad abbassare per un istante il sopracciglio sempre alzato verso «i populismi latinoamericani», e a toglierlo dalla lista dei soliti invisi (Cuba, Venezuela e en passant l’Argentina che alza la testa contro i fondi avvoltoi). E poco importa se, solo un anno fa, quello stesso Morales veniva trattato dall’Europa come un qualunque furfante: per il sospetto di aver nascosto sul suo aereo presidenziale l’uomo più ricercato del momento, la fonte del Datagate Edward Snowden. In quell’occasione, i paesi socialisti dell’America latina avevano fatto blocco, spalleggiando la Bolivia, e Morales aveva poi amplificato la solidarità ricevuta.

Anche in questo viaggio, il presidente boliviano ha messo l’accento sui legami di interscambio sud-sud che pratica il suo paese all’interno del continente: «Siamo diversi, ognuno ha il suo progetto e la sua storia, ma con un orientamento comune sia sul piano nazionale che a livello di integrazione regionale – ha detto al manifesto – Sono stato alla presidenza pro-tempore di Unasur, abbiamo raggiunto l’unità sulla base di principi che vengono dal nostro passato. Un’attitudine che fa paura a Washington e che si è messa in moto nel 2004, quando Fidel, Hugo e Nestor Kirchner hanno sconfitto il progetto dell’Alca, l’Accordo di libero commercio: che si dovrebbe chiamare accordo di libero e privato profitto, così come ora è l’Accordo del pacifico. E mi chiedo: che cosa ci fa Michelle Bachelet, una presidente che si dice socialista e che è stata votata dagli operai in quella alleanza? La vera speranza è quella realizzata dagli esclusi di ieri».

Un cambiamento evidenziato dall’arrivo alla presidenza dei «guerriglieri che si sono battuti contro le dittature oggi sono al governo»: da Daniel Ortega in Nicaragua, a Pepe Mujica in Uruguay a Sanchez Céren in Salvador, a Dilma Rousseff in Brasile.

E anche se oggi «le rivoluzioni non si fanno con le armi ma con la coscienza dei popoli», il cambiamento in corso in America latina è di carattere strutturale. In Bolivia – ha risposto ancora Morales – si basa sul controllo delle risorse e su «un’alleanza di classe che ha dato allo stato una sostanza e una legittimità che prima non aveva. Un’alleanza costruita durante anni di lotta sindacale, che ha portato a un’unità elettorale capace di arrivare al potere e ha mantenuto la maturità sufficiente per rimettere insieme quando occorre anche componenti della sinistra che di solito si respingono come l’acqua e l’olio».

Un cambio di indirizzo perfino nelle ricche zone della Bolivia che la destra definisce «la mezzaluna» e che ora hanno votato Morales: «E così ora la luna è diventata piena – scherza il presidente, ma glissa sulla nostra domanda a proposito della formazione di una «nuova borghesia aymara» e sulle critiche avanzate da certi settori della sinistra boliviana.

«Prima per Washington ero il bin Laden andino, ora mi invitano nelle università Usa a spiegare il nostro modello di crescita che ha evitato il ricatto dell’Fmi», ha detto Morales durante la conferenza “Solidarietà, complementarietà e autodeterminazione dei popoli”, introdotta dal professor Luciano Vasapollo. Per raggiungere questi risultati – ha detto ancora il presidente – «abbiamo dovuto liberarci dello Stato coloniale e di un problema serio: la costante minaccia paventata dagli Stati uniti che, se avessimo fatto a modo nostro, nessuno avrebbe più investito in un paese mendicante e malvisto come la Bolivia».

Ma, ancora una volta, a infondere coraggio sono stati i presidenti socialisti, allora Fidel Castro a Cuba e Hugo Chavez in Venezuela: «Evo, nazionalizza, non avere paura, mi hanno detto». E il modello è risultato vincente.

Nazionalizzando il settore degli idrocarburi, il socialismo andino ha ridistribuito le risorse mediante buoni e donazioni, con il sostegno di leggi che «oggi consentono a quasi il 50% delle donne di gestire proprie unità produttive, mentre prima non potevano intestarsi nulla e che le hanno portate a condividere il governo del paese». Misure che si articolano a partire dai principi ancestrali «non essere pigro, né ladro, né bugiardo», ha detto ieri Morales alla Fao e che pongono al centro «i diritti collettivi contro la privatizzazione dei beni comuni, in primo luogo la terra, l’acqua e il cibo, e la sovranità alimentare».

Un modello «indipendente dalle donazioni esterne, dal loro ricatto e dai costi», ha spiegato ancora Morales ricordando la situazione che ha trovato appena arrivatoal governo: «per il grano dipendevamo dagli Stati uniti» e dalle grandi imprese che potevano manipolare il mercato a loro piacimento. Allora, oltre ad aver insegnato «a utilizzare il nostro cibo indigeno, la quinua, ho telefonato a Cristina Kirckner e le ho detto: guarda che i gringos mi vogliono tagliare il grano, dammelo tu. E lei lo ha fatto e per questo la ringrazio». Da allora, «la quinua è entrata nel palazzo e ce la richiedono anche all’estero e ci siamo svincolati dal ricatto economico».

Un modello di economia comunitaria basato sul rapporto diretto tra piccoli produttori e stato: senza intermediari che speculano e per questo buon motore della sovranità alimentare.