Esordio alla regia per Rupert Everett con un progetto coltivato a lungo: Happy Prince, il principe felice, un racconto per bambini di Oscar Wilde che la madre gli leggeva da bimbo. Il rapporto stretto che Everett ha con questo film, scritto, diretto e interpretato è sottolineato dal fatto che lo accompagni in ogni festival, perché per Rupert è un omaggio a un antesignano. Al genio trasgressivo di Wilde, rappresentato però lontano da ogni agiografia, Oscar era un filibustiere, avido di vita, di «momenti purpurei» (come amava definire i suoi incontri sessuali con ragazzi giovani), sempre pronto a vivere ben al di sopra dei propri pur cospicui mezzi, indisponibile al compromesso, maestro di aforismi, icona gay e per questo processato, condannato e incarcerato, due anni di lavori forzati (sino al 1967, quando London era swingin’ essere omosessuali era reato).

E lì lo  racconta Everett, quando esce di galera, esiliato e povero più del solito, costretto in alberghi sordidi, eppure ancora assetato di assenzio, appassionato di cocaina, voglioso di ragazzi. Lui, irlandese, finirà per riconoscersi nella chiesa cattolica in punto di morte (a 46 anni), dopo essere rimasto vedovo della moglie, avere perso i due figli, conosciuto il rancore di troppi presunti amici e il disprezzo di eserciti di benpensanti. Il dandysmo leninismo di Oscar Wilde è stato uno schiaffo prepotente dato alle convenzioni, forse troppo in anticipo e assestato da un uomo che nessuno avrebbe potuto definire irreprensibile. Anche se questo non avrebbe dovuto essere motivo sufficiente per rinchiuderlo in un carcere come un criminale. Del resto ancora oggi l’omosessualità è considerata crimine in molti paesi e in altri è ancora vista con pregiudizi. Per questo Rupert Everett, tra i primi attori famosi a rischiare l’ostracismo dichiarandosi pubblicamente gay, ha messo qualcosa in più nel voler saldare il suo debito ideale nei confronti dell’autore raccontando un uomo pieno di contraddizioni ma ugualmente fantastico.