Ma, ci si può legittimamente chiedere: un intervallo di trenta-quaranta anni è sufficiente a farci dire che siamo entrati in una nuova fase climatica, dominata dal caos che si manifesta con una sempre maggiore frequenza ed intensità di eventi estremi?

Per la verità ancora oggi alcuni scienziati hanno dei dubbi, ma la maggioranza dei ricercatori è persuasa del fatto che l’impatto dei gas serra, legati alle attività delle società industriali, hanno prodotto uno «squilibrio permanente» che genera un caos climatico, di cui gli eventi estremi sono la prova più evidente.

Un grande contributo in questa direzione ce l’ha offerto il Nobel Ilya Prigogine, con la sua analisi delle «oscillazioni giganti» in presenza di uno stato di «squilibrio strutturale». In breve, Prigogine ci dice che quando un sistema si allontana dall’equilibrio «le fluttuazioni divengono capaci di instradare il sistema verso un comportamento completamente diverso dall’usuale comportamento dei sistemi idrodinamici (…) Fenomeni di questo tipo sono ben noti nel campo dell’idrodinamica e del flusso dei fluidi. Per esempio, era da tempo ben noto che quando un flusso raggiunge una “certa velocità” si possono creare turbolenze» ( I. Prigogine, I. Stengers, La Nuova Alleanza. Metamorfosi della scienza, Einaudi, Torino, 1993, pp. 145-6. ).

Per l’esattezza Prigogine parla di una «certa velocità» che porta ad un «punto critico» superato il quale hanno inizio le turbolenze, che nel caso del mutamento climatico si può tradurre in questo modo: è l’accelerazione con cui sono stati introdotti i gas serra, soprattutto la CO2, che ha provocato il caos meteorologico e quindi gli «eventi estremi». In poco più di mezzo secolo siamo passati ad una concentrazione di gas serra da circa 300 ppm a quasi 438 ppm , di cui quasi 414 ppm è dovuto alla CO2. Se questo incremento di gas serra si fosse distribuito in un più grande intervallo di tempo avremmo dato a Gaia la possibilità di adattarsi e riequilibrarsi gradualmente, mentre con questa «accelerazione» abbiamo provocato uno shock che ci sta portando verso il caos climatico dagli effetti sempre più devastanti. Come è noto, l’accelerazione dell’immissione di anidride carbonica è fortemente correlata alla crescita economica: quando rimpiangiamo la crescita del Pil a due cifre ci dovremmo ricordare dei danni ambientali che questo modello di crescita ha provocato. Così come la crescente turbolenza delle Borse finanziarie registratesi negli ultimi vent’anni è il frutto della velocità con cui è cresciuta la liquidità e gli strumenti finanziari (come ho messo in evidenza nel mio saggio «Eventi estremi», Milano, 2012), altrettanto si può dire dei danni provocati dalla globalizzazione del mercato capitalistico che ha subito una forte accelerazione dopo la caduta del muro di Berlino e l’entrata della Cina nella sfera dell’accumulazione del capitale su scala mondiale.

Pertanto, se all’origine del mutamento climatico e dei suoi effetti disastrosi è il nostro modello di crescita economica, dovremmo immediatamente «decelerare» e modificare i nostri stili di vita, la stessa organizzazione della vita sociale, scegliere la strada di una «decrescita consapevole», che significa riduzione drastica delle produzioni dei settori più inquinanti, e una crescita della cultura, dei servizi sociali, della prevenzione sanitaria, dell’agricoltura contadina, della ricerca finalizzata a trovare soluzioni per sopravvivere a questi rapidi mutamenti.

Purtroppo, dubito fortemente che possiamo modificare radicalmente i parametri e la struttura del nostro modo di vivere e produrre, di distribuire ricchezza e lavoro, senza una rivoluzione che non si vede all’orizzonte. Ma, anche se facessimo crollare l’immissione annua di CO2, prima che la Natura ritrovi il suo equilibrio ci vorrà molto tempo. Per cui anche nella migliore ed auspicabile delle ipotesi dovremo nei prossimi anni convivere con gli «eventi estremi», cercando di ridurre al minimo i danni.