«La frode fiscale qui è considerata un crimine molto serio… quello che non si capisce è come mai (Berlusconi) non è stato arrestato». Così il politologo di ultra-destra Edward Luttwak, noto per un sostegno spasmodico per la guerra in Iraq, dava preoccupanti segni di giustizialismo a Ballarò l’altra sera. Forse un attacco di bolscevismo. Indubbiamente nelle carceri Usa ci sono più evasori che da noi. C’è però da chiedersi quanti sono gli ultraricchi.

Mentre il dibattito è assorbito dall’evasione di un singolo (e nemmeno sul reato, ma sulla condanna!) e al massimo salta fuori lo scontrino che l’avido negoziante non fa, si perde un po’ la cognizione del fatto più eclatante: che il non pagare al fisco degli Stati, sotto le varie modalità (evasione, elusione) è un fenomeno di dimensioni macroeconomiche connaturato al sistema stesso. La Commissione Europea stima in 1000 miliardi di euro annui la cifra persa dai sistemi tributari europei. Questo per dare un’idea della scala del fenomeno che ovviamente ha stime assai diverse.

Al Forum Sociale Mondiale di Tunisi un seminario dedicato ai flussi illeciti uscenti dai paesi più poveri è stato organizzato dal Tax Justice Network – Africa (si veda l’interessantissimo sito www.afrodad.org); in esso si è analizzato uno dei punti del problema, relativo ai proventi derivanti da materie prime, in mano a multinazionali che riescono bellamente a evadere le leggi degli Stati. Ma a parte tale meccanismo lo spunto più originale è stato la diffusione di una campagna contro la City di Londra, promossa da una realtà, The Rules, vicina a Occupy britannica; veniamo così a sapere che il famoso quartiere finanziario in questione ha una amministrazione autonoma (chiamata «La corporazione della city») con regole arcaizzanti, esprime un membro del Parlamento, ed è la “capitale mondiale dei paradisi fiscali». Si fa notare infatti come molti di essi siano possedimenti britannici, con robusti legami con la capitale UK; e più in generale questa si collochi in posizione apicale nel «nuovo sistema imperiale britannico» (seminario di Tunisi), non più di cannoniere ma di finanziarie e soldi vaganti.

E’ noto che la rete di paradisi fiscali è la punta di diamante del settore di servizi finanziari specializzati dal liberare ricchi e aziende globali dalle fastidiose pretese degli Stati; essi offrono un favorevole regime fiscale di contro alle spese della registrazione, irrilevanti per i clienti ma ingenti per i microstati che li ospitano, soprattutto visto l’invidiabile capacità di ottimizzazione degli spazi: un singolo edificio nelle Caymans serve come sede di più di 18.000 aziende… E le Isole Vergini Britanniche, a fronte di 19.000 abitanti, vedono ben 830.000 compagnie registrate…

La progressiva creazione di un sistema di finanza globalizzato dai tardi ’70 ha sottratto sempre più i flussi al controllo degli Stati; mentre il libero mercato delle merci procedeva con lentezza e impacci quello dei soldi avanzava col vento in poppa, fino alla crisi del 2007-08.

L’aggiramento dei prelievi tributari genera inoltre una pioggia di conseguenze polito-sociali: l’«erosione della base fiscale» (rapporto Oecd 2013), realizza il sogno di destra di nanificare lo Stato (sociale) e ne fa ricadere gli oneri su chi non può sottrarsene: lavoratori dipendenti e pensionati, soprattutto.

Che massicciamente impoveriti e tartassati si aprono al livore irrazionale verso capri espiatori (minoranze, dipendenti pubblici) e alle sirene anti-tasse, rafforzando il liberismo sottostante al servizio delle élite dominanti. Che manco vanno in galera. Chapeau.