Nei giorni in cui la magistratura decide che vanno avanti le indagini sul naufragio dell’11 ottobre 2013 per fare chiarezza sulle eventuali omissioni di soccorso che portarono alla morte di centinaia di persone al largo di Lampedusa, ci troviamo di fronte ad altre strazianti immagini di soccorsi e interventi in mare le cui dinamiche e responsabilità andrebbero immediatamente definite.

Fa impressione leggere i racconti degli operatori umanitari impegnati nei giorni scorsi in quel tratto di Mediterraneo non solo a cercare di salvare vite umane, ma a doversi difendere da atti minacciosi e illegittimi, in acque internazionali, da parte di forze militari libiche pronte a tutto pur di impedire l’intervento delle navi delle Ong e riportare indietro le persone. Famiglie divise, persone disposte a gettarsi in acqua e morire pur di non dover tornare in Libia, aguzzini in divisa che colpiscono i migranti come fossero bestie. E morti, sempre più morti. Decine solo negli ultimi giorni, a cominciare dalle donne nigeriane giunte a Salerno.

Stiamo assistendo, increduli, alle conseguenze drammatiche e prevedibili di una strategia spregiudicata perseguita dal nostro paese nel tentativo di contenere i flussi dalla Libia e far diminuire gli sbarchi sulle coste italiane, a tutti i costi, sembrerebbe. E senza che ancora siano stati chiariti e resi pubblici i termini degli accordi siglati dal ministro dell’Interno direttamente con sindaci e capitribù. Mentre purtroppo conosciamo bene i dettagli dell’ingente contributo – italiano, soprattutto, ed europeo – alla guardia costiera libica in termini di fondi erogati, motovedette cedute e di addestramento e supporto tecnico-operativo affinché spetti unicamente a loro il controllo delle operazioni in mare, evitando così l’intervento del comando italiano e il conseguente e obbligatorio approdo delle navi che soccorrono nell’unico porto giuridicamente sicuro in quella zona del Mediterraneo, l’Italia.

Sono passati alcuni mesi e i dati sugli arrivi, calati a picco durante l’estate, tornano a crescere, probabilmente in relazione alla persistente instabilità politica e alla impossibilità di controllare le zone di partenza dei barconi da parte degli interlocutori libici del nostro governo. Un quadro in rapido mutamento a cui assistiamo da spettatori inermi, nonostante i racconti crudi e disperati che giungono da chi in Libia c’è passato e i rapporti delle organizzazioni internazionali, a partire da Unhcr, sulle condizioni inumane di detenzione nei centri governativi e su quelle presumibilmente molto peggiori dei centri gestiti dalle milizie.

Non basta il richiamo, da parte del governo, alla collaborazione sul campo con le agenzie internazionali e all’eventuale intervento della cooperazione italiana a far passare in secondo piano l’ambiguità del nostro coinvolgimento. Serve un cambio di strategia immediato e servono azioni concrete orientate alla tutela dei diritti umani e al rispetto del diritto internazionale.

Alcune proposte sono emerse nei giorni scorsi, nel corso dell’iniziativa sull’Europa promossa da Emma Bonino e Radicali italiani, in una commissione dedicata alla situazione libica e ai flussi dal Mediterraneo, cui hanno partecipato il vice ministro Mario Giro, la giurista Chiara Favilli e il ricercatore Mattia Toaldo. L

a più urgente è evacuare dalla Libia almeno donne e bambini che sono reclusi nei centri o bloccati in quel paese. Un canale umanitario con numeri adeguati verso gli stati europei o verso chi è disposto ad accoglierli, da negoziare al più presto con le autorità locali. Oltre all’attuazione di un programma sistematico di reinsediamento a livello europeo per quanti sono bisognosi di protezione.

Altro passaggio indispensabile, più a lungo termine ma da avviare in tempi brevi, è il ripristino di canali legali di ingresso per lavoro in Italia – come già proposto con l’iniziativa popolare Ero straniero – e in Europa, accessibili anche ai lavoratori non qualificati attraverso accordi con i paesi di origine che definiscano condizioni certe per l’ingresso per lavoro e per il rimpatrio degli irregolari, con l’obiettivo di gestire il fenomeno in maniera razionale e affrontare così paure e spinte xenofobe. Il rischio altissimo per i prossimi mesi è invece di continuare a parlare di immigrazione in maniera strumentale, guardando al consenso elettorale più che a quanto la ragionevolezza e il diritto internazionale dovrebbero imporci.