Pioveva sulla città pallida, le acque del Tago scorrevano limacciose di fango, la piena raggiungeva normalmente gli argini. Pioveva sempre, anche se non pioveva, nella città in cui José Saramago immagina l’arrivo di Ricardo Reis, l’eteronimo più caro a Fernando Pessoa, il poeta che aveva trasformato Lisbona nello scenario della malinconia e di un perpetuo, autunnale, disincanto. Se la tristezza borghese di Ricardo Reis presagisce l’inverno della dittatura, è nella Lisbona da decenni asfissiata dal regime di Salazar che arriva un minorenne di colore, sottoproletario e mozambicano, nato a Lourenco Marques, attuale Maputo: costui, destinato a divenire uno dei più grandi calciatori del secolo, si chiama Eusebio Da Silva Ferreira ed ha origini talmente umili (orfano di padre, ultimo di otto figli) che quando gioca con la palla di stracci tutti lo chiamano Ninguém, cioè «niente, nessuno». Paria dei paria, schiacciato alla base di un regime feroce e razzista, non solo il talento nativo ma una felice congiuntura deviano il destino del ragazzo verosimilmente destinato a lustrare scarpe, vendere noccioline o borseggiare i bianchi inviati in colonia: pare infatti che un ex portiere della Juventus, Ugo Amoretti, suo allenatore nel piccolo club di Lourenco, lo avesse segnalato invano ad alcune squadre italiane ma pare, anche, che l’ex centrocampista della nazionale brasiliana Bauer ne avesse parlato a un suo correligionario, l’ebreo ungherese Béla Guttman, tecnico a Lisbona sulla panchina del Benfica, allora un club abbastanza giovane e decisamente periferico, molto meno prestigioso dello Sporting.

Non si era fatto pregare, Guttman, e aveva dato retta a un istinto che i suoi contemporanei dicevano incredibile. Guttman aveva preso il diciottenne facendolo esordire nella squadra neocampione d’Europa, appunto il Benfica. Morto domenica a settantuno anni nella sua città d’adozione, Eusebio del Benfica e dell’intero Portogallo era presto divenuto l’ambasciatore itinerante, un simbolo transnazionale e cosmopolita che la stessa Rivoluzione dei Garofani non ha scalfito e, anzi, ha subito riconosciuto come suo virtuale battistrada. (Non dev’essere un caso che persino Cristiano Ronaldo, figlio di un’epoca postcoloniale e insieme postmoderna, insomma un reperto pubblicitario e ubiquitario della globalizzazione, ne abbia sempre ammesso apertis verbis tanto il genio quanto la classe di caratura sovrastante). Eusebio gioca a Lisbona nel Benfica per quindici anni, dal ’60 al ’75, poi in club minori per altre cinque stagioni; il suo palmarès comprende undici vittorie in campionato, cinque Coppe del Portogallo e una Coppa dei Campioni nel ’62. Così Eduardo Galeano, che gli dedica un breve folgorante ritratto in Splendori e miserie del gioco del calcio, ne riassume l’essenziale: «Fece il suo ingresso sui campi correndo come può correre solo chi fugge dalla polizia o dalla miseria che gli morde i talloni. […]E allora lo chiamarono la Pantera. Nel Mondiale del 1966, le sue zampate lasciarono un mucchio di avversari a terra e i suoi gol da angolazioni impossibili suscitarono ovazioni che sembravano non finire mai.

Fu un africano del Mozambico il migliore giocatore di tutta la storia del Portogallo: Eusebio, gambe lunghe, braccia cadenti, sguardo triste». Non è un fenomeno fisico perché non arriva a un metro e ottanta e neanche si può ascriverlo ad un ruolo definito: ha ottimi fondamentali, uno stile netto senza essere sopraffino, soprattutto è potente («potentissimo» dirà Gianni Brera di lui), veloce e addirittura irresistibile in progressione; è agile pari a un felino (di qui il nomignolo di Pantera), sale in alto anche da fermo e tira indifferentemente coi due piedi da qualunque posizione, dentro o fuori dall’area di rigore. A rivederli oggi, nei filmati d’epoca, i gol di Eusebio (circa 300 col Benfica, 41 in appena 64 partite con il Portogallo) colpiscono per la violenza squassante e la varietà impensabile di un repertorio che comprende sia la giocata d’astuzia sia la conclusione in acrobazia. All’esordio, come si è detto, trova la squadra che Guttman sembra avere allestito per lui ed è una squadra di rango mondiale che quasi duplica la nazionale portoghese: lì Eusebio (come Pelé, come Sivori, come poi gli stessi Maradona e Messi) si muove da finto centravanti, o aggiunto, su tutto il fronte d’attacco e intorno a lui giostrano un cursore infaticabile, José Augusto, un’ala veloce quale Simoes e un regista di classe sovrana, colored e capitano, l’indimenticabile Mario Coluna.

A vent’anni, il 2 maggio del ’62, Eusebio gioca l’incontro della sua vita ed è la finale di Coppa dei Campioni, ad Amsterdam, contro le merengues del Real Madrid, pluridecorati vessilliferi del fascismo franchista. Il Benfica va sotto di due gol per le stoccate di Puskas, pareggia, poi va ancora sotto, fino a quando, dopo avere cancellato nientemeno Alfredo Di Stefano, Coluna riagguanta il risultato: quindi per mezzora c’è soltanto Eusebio, che imperversa e va a segno due volte finché finisce 5 a 3 nella costernazione degli assi madridisti. Riferisce del dopopartita il suo biografo Andrea Bacci (in Gli occhi tristi della Pantera nera. Vita di Eusebio Da Silva Ferreira, Limina 2008): «Lo presero che era a torso nudo, qualcuno se lo caricò sulle spalle e lo portarono in trionfo. Si notava che il ragazzo non era propriamente a suo agio […]Si teneva misteriosamente una mano dentro il pantaloncino, e quando finalmente lo posarono a terra si capì che nel pantaloncino nascondeva la maglietta di Alfredo Di Stefano». L’altro apice della carriera, l’ultimo, è quattro anni dopo ai Mondiali di Inghilterra, dove il Portogallo, eliminato in semifinale ma in pratica estromesso dalla squadra di casa, arriva al terzo posto grazie specialmente a Eusebio che folleggia segnando a ripetizione fino a un ultimo gol leggibile alla stregua di una clausola, il rigore segnato al sovietico Lev Jascin, fra i maggiori portieri della sua generazione. Decaduti intanto il Benfica e la nazionale, la piena giovinezza di Eusebio accede a un lunghissimo tramonto.

Quella che lascia il calcio alla fine degli anni settanta è ormai l’icona itinerante del football lusitano ma Eusebio si inoltra con naturalezza nel Portogallo democratico per averlo, se non altro in emblema, preannunciato. È rimasto un individuo laconico, non ha niente della star né può dimenticare che il suo atto di nascita, per storia e geografia, porta i segni del colonialismo razzista e di una variante molto odiosa, militarista e sanfedista, del fascismo. Frequenta volentieri i suoi pari, le persone comuni, e pare abbia abitato al Bairro Alto, non lontano dall’ospedale Sao Luis dos Franceses in cui morì Pessoa. È probabile non abbia mai letto né lui né gli autori che hanno raccontato la tragedia recente del suo popolo, da Cardoso Pires e Lobo Antunes a Nuno Judice e, ovviamente, José Saramago ma è certo però che nei suoi occhi malinconicissimi, dentro un fondo di tristezza da fado che gli restava anche nel sorriso, Eusebio riviveva lo sguardo di Ricardo Reis quando entra a Lisbona sotto una pioggia così lenta da sembrare eterna.