A dicembre l’Europa è entrata in deflazione. La conferma ufficiale è giunta ieri dall’indice dei prezzi al consumo calcolato da Eurostat per i 19 paesi dell’euro. Il mese scorso è sceso dello 0,2% rispertto a un anno fa, con un calo dello 0,3% rispetto a novembre. Per trovare un’inflazione così depressa bisogna scorrere la serie storica della Banca Centrale Europea e risalire a cinque anni fa. Era dal 2009 che non succedeva. Il dato è peggiore della attese visto che tutti attendevano un calo dello 0,1%. La deflazione colpisce tutti: prezzi in picchiata in Grecia e Spagna mentre in Italia è a zero e in Germania si attesta a malapena su un +0,1%, il minimo dal 2009. Secondo l’Eurostat la contrazione è dovuta alla flessione dell’energia (-6,3% rispetto a +2,6% di novembre), mentre sono rimasti sostanzialmente stabili cibo, alcol e tabacco (+0% rispetto a +0,5%) e i beni industriali non energetici (0% rispetto a -0,1% del mese precedente). L’unico incremento dei prezzi è attesto nei servizi, stabili a +1,2%. Per l’Italia si parla al momento di stagnazione: l’Istat mostra una variazione nulla sia rispetto al mese precedente sia nei confronti di dicembre 2013 (il tasso tendenziale era +0,2% a novembre).

Dati che confermano il fallimento della Bce, fino ad oggi incapace di far rispettare uno dei comandamenti imposti dalla sua austera missione: tenere l’inflazione vicina all’obiettivo del 2 per cento. E infatti ieri, mercati, agenzie di stampa, voci di «esperti» sono tornati alla carica su Draghi. Il 22 gennaio, a tre giorni dalle elezioni politiche ad Atene che vedono favoritissima la Syriza di Tsipras, si riunirà il board di Francoforte. In agenda il tanto sospirato «quantitative easing», cioè l’immissione nelle esauste vene dei circuiti bancari di nuova droga monetaria. Ipotesi che Draghi affronta da un anno almeno con molta prudenza, anche perchè deve scontare l’opposizione della Bundesbank di Weidmann, contrario all’acquisto di titoli di Stato al quale Draghi ha più volte fatto riferimento.

Non è scontato che Draghi dia il fuoco alle polveri il 22. Lo si è visto dalla pronta reazione della Commissione europea che ha subito escluso la deflazione. «Si tratta di un segno negativo provvisorio» sul dato dell’andamento dei prezzi europei. Questioni di decimali, anche perché la realtà è più che chiara in tutta Europa. Solo per fare due esempi in Italia: a Firenze l’inflazione registra il segno meno da sei mesi: nei servizi ricettivi e di ristorazione (-1,7%) nei prodotti alimentari e bevande analcoliche (-1,4%), alberghi e ristorazione -7,2% rispetto a novembre 2014 ma +1,1% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Situazione analoga a Terni con -0,6%.

Per Coldiretti i consumi sono tornati indietro di oltre 33 anni, sui livelli minimi del 1981. A spingere il tasso d’inflazione medio annuo per il 2014 al minimo dal 1959 è stato il calo dei prezzi dei prodotti alimentari non lavorati come frutta, verdura, carne e pesce fresco che fanno registrare una riduzione dello 0,8% e sono di fatto in deflazione. A mantenere sostanzialmente fermi i prezzi negli ultimi due anni è stata essenzialmente la perdurante crisi della domanda. Il rischio di una deflazione è, pertanto, ancora presente, sostiene invece l’ufficio studi della Confcommercio. Confesercenti vede all’orizzonte un rischio «giapponese»: il mix di deflazione e stagnazione è un problema strutturale della crisi e c’è il rischio che la Ue sprofondi in una fase di avvitamento economico.

Allora tocca sperare nel «quantitative easing» di Draghi? Mica tanto. Il fiume di denari potrebbe fare la fine di quelli erogati dalla Bce tra il 2011-2012: sono rimasti alle banche e poco o nulla è arrivato a famiglie e imprese. Aggravando la crisi, la povertà e distruggendo la domanda. Questo blocco del credito tecnicamente lo chiamano «credit crunch». In compenso la Bce potrebbe reggere il boom del mercato dei titoli di Stato che sono in gran forma. Magra consolazione.