«Dove sta andando la Gran Bretagna grazie all’Europa? L’altra sera ho preso un treno che partiva da Charing Cross e, stazione dopo stazione, mi sono accorto che non si sentiva più parlare inglese, finché un vecchietto non mi si è rivolto e mi ha chiesto, “Scusi lei è di questo paese?”. Gli ho risposto, “Sì, sono inglese e voglio restarlo”». Per Nigel Farage, il leader dello United Kingdom Independence Party che con il 26% dei consensi è arrivato in testa nelle elezioni politiche inglesi, il problema è tutto qui: l’Unione europea non è solo responsabile della crisi economica del suo paese, ma sta contribuendo ad una vera «invasione» di immigrati.

Le parole di Farage sono riprese in Revolt on the Right: Explaining Support for the Radical Right in Britain (Routledge, pp. 336, £14.99), il libro che i politologi Robert Ford e Matthew Goodwin hanno pubblicato alla vigilia del voto europeo per spiegare come l’euroscetticismo dello Ukip – forse futuro alleato dei 5 Stelle a Bruxelles – e di molti partiti simili nel resto d’Europa, non rappresenti che il nuovo volto dell’estrema destra. L’ultimo di una serie di studi che, in particolare Goodwin, docente dell’Università di Nottingham e tra i maggiori studiosi europei dell’estremismo razzista, conduce da anni.

Fino ad ora, in Gran Bretagna si sono spesso considerati quelli andati allo Ukip come dei “voti conservatori in libera uscita” e il partito di Farage è stato presentato come dei “Tory in esilio”. Lei propone un’analisi ben diversa che l’esito delle europee non fa che confermare. Come stanno le cose?

Lo Ukip ha mandato un messaggio molto semplice agli elettori: votandoci potrete dire “no” all’immigrazione, “no” a Westminster, “no” all’Unione Europea. Questo perché il partito di Farage ha conosciuto una progressiva evoluzione da semplice gruppo di pressione anti-europeo a vera e propria forza politica della destra radicale in grado non soltanto di raccogliere i consensi del ceto medio conservatore deluso da Cameron, ma sempre più spesso anche di coloro che considerano di essere stati “lasciati indietro”, dimenticati dalla politica e dalle istituzioni. Parlo del voto degli operai, e della working class più in generale, che in un periodo di rigida austerity come questo, possono mettere in discussione il loro tradizionale appoggio al Labour. Oggi, l’elettorato dello Ukip è fatto prevalentemente da maschi bianchi, lavoratori o pensionati che vivono soprattutto nelle aree industriali o ex industriali del nord del paese, e che hanno votato per decenni per i laburisti, ma, a partire dalla stagione di Tony Blair, hanno percepito questo partito come meno interessato alle loro sorti.

Già prima del voto europeo, nel suo libro Revolt on the right, lei e Robert Ford avete definito il voto per il partito di Farage come una “rivolta contro l’establishment”. In che senso?

Gli slogan dell’Ukip si rivolgono principalmente a quei settori della società britannica che non si sentono rappresentati. Si tratta di persone che vivono nei piccoli centri, lontano dalle metropoli e soprattutto da Londra e che hanno, in media, un basso livello di istruzione. Votano contro l’immigrazione pur non vivendo nelle zone dove la presenza degli immigrati è più forte, ma perché identificano con questo fenomeno la loro perdita di status o di ruolo all’interno della società britannica. Per queste persone, l’establishment non è incarnato soltanto dai “potenti” – in questo caso l’Unione Europea -, ma da quella stessa classe media, urbana e istruita, che è diventata il cuore della contesa elettorale tra i conservatori e i laburisti. Invece loro, gli appartenenti alla classe lavoratrice, “non se li fila nessuno”. E’ su questo senso di abbandono crescente, reso ancora più amaro dagli effetti della crisi economica, che ha cercato di speculare lo Ukip che si è presentato come il partito della “gente comune”, degli ultimi, della periferia del paese: lo stesso Nigel Farage ama ricordare come viva in un piccolo centro del Kent.

Nelle elezioni europee del 2009, in regioni in crisi come lo Yorkshire, i neonazisti del British National Party avevano raccolto quasi un milione di voti. C’è una relazione tra quel successo e la vittoria di oggi dell’Ukip?

Anche se raccoglie soprattutto il voto dei lavoratori bianchi che hanno abbandonato il Labour, il partito di Farage è nato dall’ala destra dei conservatori, i suoi vertici provengono da quell’ambiente. Il Bnp non ha invece mai fatto parte della politica mainstream, appartiene alle correnti fasciste dell’estrema destra britannica, alcuni suoi esponenti sono stati condannati per aggressioni razziste. Eppure, per molti versi, i due fenomeni rispondono entrambi alle stesse domande, uno in forma estrema e marginale, l’altro in una forma che viene considerata legittima, compatibile con il dibattito pubblico del paese. Non a caso, in questi anni l’Ukip ha svuotato il bacino elettorale del Bnp, mentre ha fatto sue molte delle parole d’ordine e della linea politica della destra radicale.

All’ombra dei successi elettorali dello Ukip, e nell’onda lunga del post-11 settembre, è cresciuto in Gran Bretagna anche l’attivismo di gruppi come la English Defence League che ha fatto dell’islamofobia uno strumento di mobilitazione razzista. Una minaccia di tipo nuovo?

Questo tipo di gruppi aggiungono all’idea che gli immigrati musulmani possano mettere a rischio i posti di lavoro degli inglesi, quella che in gioco, in questo momento, ci sia lo stile di vita britannico, i “valori” del paese e della patria. Più in generale è lo stesso principio del multiculturalismo che viene contestato. Piuttosto che il mito della supremazia dei bianchi, e un razzismo esplicito, questo nuovo tipo di estrema destra esprime un rigetto di tipo culturale e cerca di pescare nelle paure che sono sorte in tutto l’Occidente dopo l’attentato delle Twin Towers e altre violenze compiute dai fondamentalisti islamici.