La lingua è un fenomeno fondante dell’esperienza umana ed entra in gioco in ogni grande questione, dove meno ce l’aspettiamo, perché ha a che fare con la nostra identità e con la percezione di noi e degli altri. Anche la guerra russo-ucraina in fin dei conti parte da una questione linguistica: la presunta oppressione della minoranza russofona del Donbass.

La lingua come la intendiamo oggi è strettamente legata alla costruzione degli stati nazionali. Della loro ideologia siamo prigionieri in ogni nostro comportamento linguistico. Lo stato nazionale fa della lingua una religione. Parlare correttamente è un obbligo patriottico e l’errore una bestemmia non solo contro la lingua ma anche contro la nazione che in essa si identifica. Lo stato vede con sospetto il poliglotta, il cosmopolita, perché si sottrae al vincolo dell’appartenenza. Le lingue degli altri poi le chiamiamo «straniere» e in questo modo già dichiariamo che per quanto siamo disposti a impararle, non vogliamo venirne contaminati. Invece per imparare qualcosa bisogna abbandonarvisi, innamorarsene, accettare che la sua conoscenza ci trasformi.

LE LINGUE NON SONO sempre state così divisive. Al tempo di Dante non esisteva una frontiera netta fra l’una e l’altra, spesso non avevano neanche un nome preciso e la loro diffusione era legata solo alla loro forza culturale. Dante stesso nel Paradiso dice: «Opera naturale è ch’uom favella / così o così natura lascia / poi fare a voi secondo che v’abbella». A questo spirito dovremmo ritornare.

Le lingue non appartengono a uno stato o a un’accademia, bensì a chi le parla. Parlare una lingua vuol dire rivendicare su quella lingua il diritto di usarla e adattarla al nostro pensiero.

Di ogni lingua dobbiamo accettare la mutevolezza, la costante tendenza a mescolarsi nell’incontro con le altre. La grammatica non è la proclamazione di un ordine ma la fotografia di un incessante disordine. Dovremmo anche renderci conto che tutte le lingue hanno pari dignità. Come diceva Noam Chomsky, «quel che distingue una lingua da un dialetto è l’esercito». Tutelare le minoritarie è un approccio sbagliato (…), andrebbero invece lasciate libere di confrontarsi con le altre. Solo così possono trovare nuovi spazi per diffondersi, un nuovo respiro anche fuori dalle loro aree d’origine, senza più bisogno di protezione. Nessuna lingua mai muore ma semmai si trasforma col tempo in un’altra.

NESSUN ESSERE UMANO ha mai sperimentato la morte della propria lingua. Tutti la sogniamo ma la lingua unica è un’assoluta utopia perché ogni fenomeno umano è mutevole e poi ogni lingua imposta ha sempre avuto vita breve. Non può esistere una lingua universale percepita da tutti come neutra. La lingua è sempre espressione di una cultura. È il multilinguismo invece che dovrebbe essere la condizione naturale dell’esperienza umana. Per molti italiani, pur inconsapevolmente, è sempre stato così, nella perdurante coesistenza di lingua e dialetto. Il dialetto ha una sua funzione, un proprio spazio che non va travalicato o forzato cercando di fare di ogni dialetto una lingua.

Le lingue non servono solo a comunicare ma anche a nascondere, a riconoscerci in un gruppo e a tenerne fuori gli altri e pure questo ruolo ha il dialetto. La vitalità sta proprio nel suo essere lingua di casa, capace di esprimere la particolarità di un territorio e invece inadatto a essere artificialmente proiettato al di fuori. In modo analogo dovrebbe formarsi oggi il multilinguismo europeo, non secondo una ricetta imposta ma con la disponibilità all’apprendimento delle lingue che abbiamo attorno a noi e che servono bisogni diversi, con competenze diverse. Dovremmo intanto smetterla di avere paura dell’inglese, che non è più lingua britannica e invece impossessarcene. E in una nuova etica linguistica dell’Europa moderna associarlo alla comprensione delle lingue che ci circondano, per raggiungere la condizione ideale dove ognuno parla la propria lingua e tutti si capiscono.

QUESTO SAREBBE IL MODO per liberare infine le lingue dal ricatto degli stati e farne strumento di inclusione senza castrare la loro naturale vocazione all’identità. Ma c’è un altro modo per alleggerirle dai loro troppi e gravosi ruoli: giocarci, ad esempio mescolandole, come del resto hanno sempre fatto. In questo spirito ho inventato la lingua-gioco dell’europanto, una provocazione che spinge a vedere la lingua come fenomeno unico, al di là delle differenze di ognuna.

Per giocare all’europanto basta mettere insieme quel po’ di grammatica inglese che tutti mastichiamo e quelle tante parole internazionali che ormai travalicano da una lingua all’altra come muchacha, bazooka, blitzkrieg, buffet, coiffeur, kaiser, hooligan, pizza, mamma, napoli, mafia, kindergarten, macaroni, kaputt, bravo, cabriolet, maestro, penalty, corner, canapé, panzer, sombrero, sayonara, a cui se ne possono aggiungere sltre riconoscibili in molte lingue perché hanno una radice comune (Der result esse eine mix van differente parolas que alles unterstande, tambien without study und reglas porqué por speak europanto tu necessite keine reglas, tu just improviste und voilà que tu esse perfecte vel correcte speakante).

L’europanto è forse un utile modo per capirsi ridendo, senza sventolare bandiere identitarie e così proclamando la nostra accettazione del carattere provvisorio di ogni lingua come di ogni identità.

Idiomi e dialetti

Il Premio Ostana (che comincia oggi e finisce il 26) è un appuntamento con le lingue madri del mondo che ogni anno riunisce a Ostana (Cn), borgo occitano ai piedi del Monviso, autori di lingua madre dal mondo per un festival della biodiversità linguistica: in 14 anni sono state ospitate 44 lingue da tutti e 5 i continenti