Ogni 53 migranti che tentano di arrivare in Europa attraversando il canale di Sicilia, almeno uno muore affogato. Una percentuale di poco inferiore al 2% e più bassa di un punto rispetto agli anni passati ma che rappresenta l’ulteriore conferma – se anche ce ne fosse bisogno – delle tragedie che ogni giorno avvengono davanti alle nostre coste.
La diminuzione del numero dei morti, che rappresenta automaticamente un aumento di coloro che sono stati salvati, si deve alla presenza nel Mediterraneo meridionale delle navi della marina militare italiana impegnate ormai da un anno nella missione Mare nostrum, unica risposta europea alle stragi di migranti. L’indifferenza con cui in questi mesi Bruxelles ha guardato a quanto accadeva nella sua frontiera più meridionale è stata duramente criticata ieri proprio nella capitale belga da Amnesty international, che ha ricordato come «la vergognosa mancanza d’azione dei Paesi dell’Unione europea abbia contribuito all’aumento delle morti nel mar Mediterraneo, dove migliaia di migranti e rifugiati hanno perso la vita nel tentativo disperato di raggiungere le coste europee».

A Bruxelles Amnesty ha presentato «Vite alla deriva: rifugiati e migranti in pericolo nel Mediterraneo centrale», un rapporto in cui sono raccolte le conclusioni delle visite compiute dall’organizzazione a Malta e in Italia e le testimonianze di oltre 50 migranti. Da gennaio a oggi – spiega l’organizzazione – sono state 2.500 le persone che, dopo essere partite dall’Africa del nord, sono annegate o disperse nel Mediterraneo. 130 mila sono invece i migranti che hanno attraversato la frontiera via mare e recuperati dalla navi della marina italiana. Per capire lo sforzo messo in atto da Mare nostrum in questi mesi basti pensare che nello stesso arco di tempo i migranti tratti in salvo dalla marina militare maltese sono stati 565. E dietro ogni migrante c’è sempre una storia fatta di violenze e sopraffazioni. «Quando abbiamo lasciato la Libia – ha raccontato ad esempio Mohammed, siriano di 22 anni, uno dei migrati intervistati da Amnesty – eravamo 400 adulti e circa 100 bambini. Abbiamo dovuto raggiungere a remi l’imbarcazione più grande che era in cattive condizioni. Non volevo salire, ma lo scafista mi ha minacciato con una pistola. Poi, alle 2 di notte, ho sentito degli spari. Un’altra imbarcazione con uomini armati a bordo si è messa davanti, hanno cercato di fermarci per circa quattro ore. Sparavano da ogni direzione. All’alba se ne sono andati, la nostra barca, danneggiata, stava affondando».

La mancanza di coordinamento tra i paesi che si affacciano sul Mediterraneo non aiuta certo le operazioni di soccorso. E adesso che il governo italiano ha annunciato l’intenzione di mettere fine a Mare nostrum, secondo Amnesty le cose non potranno che peggiorare. «Siamo fortemente preoccupati, perché Frontex plus, o Triton come come si dovrà chiamare, non ha al momento i requisiti per poter far fronte alla situazione», ha denunciato ieri Matteo de Bellis, di Amnesty Europa. «A noi va bene che sia che sia Frontex plus a farsi carico del problema – ha proseguito -, ma devono pattugliare le acque internazionali del mediterraneo centrale e non limitarsi alle aree contigue a quelle territoriali. Inoltre Frontex deve avere un chiaro mandato di salvare vite in mare e no dedicarsi al pattugliamento delle frontiere».

Amnesty sottolinea inoltre la necessità di arrivare a una revisione di alcune delle norme che oggi regolano l’immigrazione in Europa. A partire dal regolamento di Dublino III che impone ai paesi in cui avviene il primo sbarco di pendere in carico i migranti, impedendo loro di trasferirsi se lo vogliono. Ma anche aprendo corridoi umanitari che consentano di prelevare i migranti nei paesi di transito evitando così le traversate gestite dalle organizzazioni criminali. «Malgrado i pericoli e le misure dell’Unione europea per tenerli a distanza – ha ricordato John Dalhuisen, direttore del programma Europa e Asia centrale di Amnesty – i rifugiati e i migranti continueranno rischiare la loro vita e quella dei loro figli per fuggire da paesi di origine devastati dalla guerra, in cui i diritti umani sono violati o le condizioni economiche sono disperate. Gli Stati dell’Unione europea non possono costringerli a viaggiare lungo la rotta più pericolosa del mondo e poi abbandonarli al loro destino».