Primo, incerto e complicato esercizio di una campagna elettorale inedita: cinque candidati alla presidenza della Commissione europea (in rappresentanza di cinque gruppi politici sui sette presenti attualmente al parlamento europeo) discutono in diretta da Bruxelles ripresi da una cinquantina di tv europee (non sempre la più importanti, senza esagerare) e in streaming internet. Martin Schulz per il Pse, Jean-Claude Juncker per il Ppe, Ska Keller per i Verdi, Guy Verhofstadt per i liberali e Alexis Tsipras per la Sinistra europea questa sera saranno chiamati a confrontarsi, con tutte le difficoltà del caso, a cominciare dalla lingua, per rivolgersi ai circa 400 milioni di elettori che tra il 22 e il 25 maggio eleggeranno nei 28 paesi Ue il parlamento europeo che resterà in carica dal 2014 al 2019 (due gruppi non presentano un candidato unico: i Conservatori e Riformisti, a cui fa riferimento il primo ministro britannico David Cameron e l’estrema destra di Europa delle libertà e della democrazia, dove siede la Lega Nord).

I due principali concorrenti, sulla carta, sono il tedesco Schulz, attuale presidente dell’Europarlamento e il lussemburghese Juncker, già presidente dell’Eurorgruppo. Ma, come sempre in Europa, le cose si complicano quando devono passare dalla teoria alla pratica. L’idea di presentare un candidato comune ai 28 paesi per la presidenza della Commissione viene dalla sinistra, socialista e radicale (Schulz e Tsipras). I popolari hanno puntato i piedi, per poi piegarsi all’esercizio obtorto collo: Juncker è infatti un po’ indigesto a molti, a cominciare da Angela Merkel, perché è una vecchia volpe europea e per di più cittadino di un paradiso fiscale.

François Hollande afferma che «per la prima volta, attraverso il voto, gli elettori designeranno il futuro presidente della Commissione», mentre Angela Merkel è molto più prudente. David Cameron è decisamente contrario e ha già fatto intravedere un ricatto: il premier britannico organizzerà un referendum sul mantenimento della Gran Bretagna nella Ue e farà valere che un’elezione «automatica» del leader della lista vittoriosa all’europarlamento toglie potere al Consiglio, quindi agli stati, argomento che indebolirà la campagna a favore della conferma di Londra in Europa.
I Trattati non dicono esattamente che il candidato del gruppo che arriva in testa sarà nominato alla presidenza della Commissione, ma dopo aver stabilito che è il Consiglio (cioè i capi di stato e di governo) a scegliere la personalità, si limitano in modo vago a indicare che il nome dovrà essere scelto «tenendo conto» del risultato delle elezioni. E qui nasce la difficoltà: bisognerà trovare una maggioranza di 376 voti (su 751 eurodeputati) per essere votato al Parlamento europeo, che ha sulla carta l’ultima parola sulla scelta. Ma al Consiglio i capi di stato e di governo non intendono farsi dettare la scelta dall’europarlamento. Certo, nel caso ci fosse una chiara vittoria di uno o dell’altro campo – socialisti o popolari europei – il Consiglio non avrebbe via di scampo. Ma se lo scarto, come annunciano i sondaggi, sarà molto corto, allora si aprirà la strada a ogni tipo di mercanteggiamento. Ci saranno possibili alleanze, dall’ipotesi di una grosse Koalition alla tedesca (allargata forse anche ai liberali, terzo gruppo in termini di importanza), fino a possibilità, molto ipotetiche, di intese a sinistra (Pse con la Gue) o a destra. Herman Van Rompuy, l’opaco e burocratico presidente del Consiglio Ue, prevede già «uno scontro istituzionale» tra Consiglio e Parlamento. Ha convocato un vertice Ue per il 27, per vederci più chiaro, alla luce del risultato del voto. Alla fine, Schulz e Juncker potrebbero così venire spiazzati. E gli elettori delusi una volta di più, sentendosi imbrogliati da una campagna che ha fatto una promessa che poi non potrà essere mantenuta.

Più grave, sarà la scelta dell’indirizzo politico. Nel prossimo europarlamento ci sarà una forte presenza di partiti euro-scettici. Il parlamento, pur essendo l’unica istituzione eletta direttamente – quindi, sulla carta, la più legittima – ha certo acquisito più poteri con il Trattato di Lisbona. Ma ha difficoltà a essere individuato come il portavoce delle popolazioni, come si è visto nella gestione delle crisi del debito, rimasta in mano alla troika (Commissione, Bce e Fmi).

I 5 CANDIDATI:

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Jean-Claude Juncker:
Eterno primo ministro del Granducato del Lussemburgo (dal 1995 al 2013), è un navigato conservatore di 58 anni. Ha ottenuto la nomination a candidato Ppe in una votazione che lo opponeva al francese Michel Barnier. Rappresenta la continuità con la Commissione Barroso, ma ha dato prova di sapersi scontrare con gli stati forti.

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Ska Keller:
Tedesca, 33 anni a novembre, unica donna e la più giovane. Condivide il ruolo con il francese José Bové: fra i Verdi Ue il vertice è obbligatoriamente paritario uomo-donna. Nell’improbabile caso gli ecologisti vincessero non è chiaro, però, chi guiderebbe la Commissione. Eurodeputata uscente, è nella sinistra dei Grünen.

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Martin Sculz:
Presidente dell’Europarlamento, famoso in Italia per il «kapò» di Berlusconi, tedesco di 58 anni. È l’uomo della Spd per le questioni continentali: ha trattato con la cancelliera Merkel il programma della grosse Koalition in materia di Ue. Parla perfettamente inglese e francese, in libreria il suo Il gigante incatenato (Fazi).

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Alexis Tsipras:
L’unico uomo della sinistra radicale che ha discrete chance di diventare capo del governo del proprio Paese in Europa. Greco di 39 anni, è uno dei vicepresidenti del partito della Sinistra europea. Angela Merkel lo ha recentemente definito «un piantagrane», per i comunisti ortodossi ellenici del Kke è «un socialdemocratico».

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Guy Verhofstadt:
Europeista viscerale, 60 anni ben portati, ex premier belga. Fra i liberali è considerato dell’area di sinistra: liberista, ma anche molto sensibile sui temi dei diritti civili. In Italia sarebbe nel Partito radicale con Pannella. È tra gli eurodeputati più stimati, ha scritto con Daniel Cohn-Bendit Per l’Europa! (Mondadori).