La crisi economica che attraversa l’Europa potrebbe essere interpretata nel più ampio e complesso quadro internazionale. Se nel 2009 quasi tutti i paesi del mondo hanno registrato una violenta contrazione del reddito, il Pil mondiale si riduce del 2% (Banca Mondiale, 2015), l’intensità della crisi non è omogenea, così come le policy adottate per affrontare gli effetti della caduta del reddito. Solo per fare un esempio, gli Stati uniti hanno rafforzato la domanda interna e il peso dell’economia pubblica, mentre l’Europa continua l’austerità. Gli Usa riducono il tasso di disoccupazione al 5,3%, ai minimi dal 2008, l’Europa annaspa nell’austerità espansiva. Sono ormai 3 mesi che l’economia nordamericana crea più di 200 mila posti di lavoro al mese.
L’unico effetto positivo, forse temporaneo, è un profondo cambiamento negli orientamenti della ricerca nel campo dell’economia, che con difficoltà comincia ad affermarsi. Infatti, nel corso di questi ultimi 30 anni si è consolidata una “scienza normale” che ha minato lo sviluppo di idee e ricerche che oggi sarebbero utili per affrontare il tema della crisi (A. Roncaglia, 2011). La crisi iniziata nel 2007, esplosa tra il 2008 e il 2009, è un evento che potenzialmente potrebbe concorrere a trovare nuovi equilibri (superiori). Un altro e fondamentale effetto delle crisi è quello di ricostruire le istituzioni del capitale. Queste sono cambiate o ridisegnate ogni volta che si è manifestata una crisi strutturale o di struttura. Leon ricorda che c’è qualcosa di più profondo e inedito in questa crisi: è l’inizio della fine di un paradigma, più precisamente del paradigma Reaganiano-Thatcheriano che ha costruito un particolare equilibrio tra Stato e capitale. Le implicazioni di ordine economico e sociale sono enormi: cosa si cela dietro l’eventuale esaurimento di questo particolare paradigma? Quali sono i fenomeni sociali, economici e riproduttivi del capitale che lo possono determinare? Il paradigma (Reaganiano-Thatcheriano) ha la forza endogena per rigenerarsi e quindi perpetuarsi? (Leon, 2014).
Il ruolo delle istituzioni per l’andamento della vita economica è fondamentale, e all’interno delle economie di mercato esiste una ampia varietà di assetti istituzionali. Inoltre, le istituzioni del capitale cambiano ogni volta che si manifesta una crisi di un certo rilievo. Nella recente storia economica possiamo individuare cinque crisi strutturali (1972-1975; 1979-1982; 1988-1992; 1999-2002; 2007-2009). Sono crisi profonde che hanno gettato le basi per una diversa regolazione delle istituzioni del capitale, ma l’ultima crisi (2007-2009) si presenta come una crisi strutturale, nel senso istituzionale del termine, e di struttura, e l’impatto non è uguale per tutti i paesi. Per alcuni paesi è opportuno utilizzare il termine recessione, per altri rallentamento della crescita, e per altri ancora depressione. Non è la crisi in quanto tale che può spiegare la forza-debolezza delle aree economiche internazionali, piuttosto è la velocità delle singole aree nel recuperare le posizioni reddituali e occupazionali di inizio crisi a distinguere il posizionamento internazionale delle stesse. Se consideriamo la crescita tra il 2007 e il 2014, la Cina cresce del 76,0%, il Brasile del 26,9%, la Gran Bretagna del 6,3%, il Giappone del 3,1%, gli Stati uniti del 9,8%, mentre l’economia mondiale cresce del 17,3%. Diverso è il posizionamento dell’area euro; nello stesso periodo cresce solo del 2,3%, cumulando un pericoloso ritardo rispetto all’economia internazionale. Inoltre, all’interno dell’area euro convivono paesi che sono in depressione (Italia e Grecia), in recessione (Francia), ed altri ancora che manifestano una contrazione della crescita (Germania). Quindi la crisi non è omogenea in tutte le aree economiche, e all’interno delle stesse possiamo trovare situazioni molto diverse.
C’è, però, un aspetto di politica economica abbastanza importante nel recupero delle posizioni pre-crisi di molte delle aree considerate: il rafforzamento della domanda interna come policy per rafforzare la crescita del Pil. Difficile dire se sia l’effetto della minore crescita internazionale o l’inizio di una nuova politica economica che prelude a nuove istituzioni del capitale, ma è oltremodo indiscutibile che in tutte le aree economiche, Cina inclusa, il peso delle esportazioni come strumento per consolidare e/o rafforzare la crescita economica si sia ridotto. Solo l’area euro continua a immaginare la crescita economica attraverso la capacità-possibilità di aumentare le esportazioni internazionali. I dati raccolti sono abbastanza chiari a questo proposito. Le partite correnti, in percentuale del Pil, registrano degli avanzi-disavanzi contenuti con il passare della crisi: la Cina passa dal 15% del PIL del 2008 al 2% del 2014; la Federazione Russa dal 6% al 3%; il Giappone dal 3% all’1%. Solo i paesi europei, tendenzialmente, aumentano il peso degli avanzi commerciali per consolidare il Pil, con una anomalia (mondiale) che potrebbe spiegare una parte dell’atteggiamento cinese, giapponese e americano circa l’esito della crisi greca: la Germania aumenta l’avanzo commerciale dal 5,6% del Pil del 2008 al 7,5% del 2014.
Il rallentamento della crescita economica degli ultimi 20 anni e la crisi iniziata nel 2007, consegnano alla comunità una crisi che è allo stesso tempo d’accumulazione, di domanda e regolazione. Le misure intraprese sono diverse per paese e per area economica, ma all’orizzonte sembra prefigurarsi un quadro di politiche che puntano al sostegno della domanda, dell’accumulazione (attraverso l’industrializzazione della ricerca per anticipare la domanda di beni e servizi), unitamente ad una regolazione del sistema finanziario (almeno) sufficiente per rallentare la finanza speculativa. Queste politiche, così come le modalità e la tempistica di attuazione, prefigurano delle istituzioni e delle economie incoerenti con il precetto mainstream, almeno nei postulati teorici, da cui, però, l’Europa non sembra capace di uscire. In questo contesto l’Europa potrebbe diventare un vincolo internazionale se continuasse a perpetuare politiche di austerità, nella misura in cui non concorre a trovare una soluzione condivisa alla crisi internazionale.