«Quando l’Europa era al centro dell’universo, e cioè più di 150 anni fa, gli europei non parlavano dell’Europa. Hanno iniziato a farlo solo da quando l’Europa ha cominciato a passare dal centro alla periferia del mondo». Ad affermarlo è lo storico Donald Sassoon nelle prime righe del pamphlet Quo vadis Europa? (Castelvecchi), dove ricostruisce in maniera realistica e spassionata la crisi del progetto europeo. Un’analisi pessimistica (perché «le false speranze non devono oscurare la comprensione della situazione») che vuole contribuire, però, a trovare una strada per salvare «il miracolo di un’associazione di 28 Paesi che (…), malgrado tutto, cercano di trovare un modo di convivere pacificamente».

Allievo di Eric Hobsbawm, Sassoon è professore emerito di storia europea comparata presso il Queen Mary College dell’università di Londra, ed è molto noto anche in Italia per i suoi imponenti tomi Cent’anni di socialismo e La cultura degli europei. I suoi primi studi li dedicò al Pci: presto arriverà nelle librerie la ristampa del suo Togliatti e il partito di massa. Coltissimo e molto disponibile, è un interlocutore ideale per riflettere a tutto campo a partire dalle elezioni europee.

Professor Sassoon, uno degli elementi-chiave di questo voto sarà il risultato dello Ukip di Nigel Farage: il rapporto irrisolto tra Gran Bretagna ed Europa torna al centro della scena.

È un rapporto travagliato fin dal secondo dopoguerra. Già Winston Churchill era favorevole al mercato comune, ma questo non significava che la Gran Bretagna dovesse farne parte. I primi ministri britannici hanno sempre fatto un passo avanti e due indietro per non compromettere la propria leadership, fino al laburista Harold Wilson, che per ricompattare il Labour diviso promise un referendum, cosa mai vista prima. Il referendum del 1975 vede la vittoria dei sì al 67%: una maggioranza netta ma non schiacciante. Margaret Thatcher mantenne viva la tradizione di un rapporto in cui il Paese è in continua negoziazione con l’Europa per ottenerne il meglio possibile. Da allora è il partito conservatore a essere diviso profondamente sulla questione dell’Unione europea: i laburisti molto meno perché l’euroscetticismo era tipico della sinistra del Labour, che in questi ultimi 15 anni ha perso molto terreno.

E il New Labour di Tony Blair, liberatosene, ha adottato la stessa strategia dei Tories.

Blair aveva dichiarato che dovevamo essere al centro dell’Europa, sebbene la politica sua e soprattutto quella di Gordon Brown rimanessero tradizionali: sì all’Europa, ma senza firmare Schengen, no all’eurozona e così via. Per David Cameron l’unico modo per contrastare l’antieuropeismo dell’Ukip, come per mantenere l’unità del partito, è rifare il gioco di Wilson, promettendo il referendum. Il tutto in mezzo a una grave crisi: i Paesi entrati nell’eurozona hanno difficoltà a rimanervi ed è cresciuto ovunque l’antieuropeismo, che si traduce in crescente astensionismo. Se il progetto è in crisi in Italia, un Paese tradizionalmente euro-entusiasta, figuriamoci in Gran Bretagna che era scettica quando le cose ancora andavano bene.

È il progetto Europa in sé che non tiene?

No, non direi così. Ma in Europa c’è una tensione fra approfondimento e allargamento. Rimanendo in pochi si possono fare più cose: mettere insieme parte del sistema fiscale e del welfare per esempio, e anche altro. Ma se ci si allarga si fa di meno. Mettere d’accordo sei Paesi è più facile che ventotto. Alcuni pensano che fare l’Europa sia come fare l’Italia, o fare la Germania. Bene, ma come si sono fatte l’Italia e la Germania? Con la guerra di conquista prima di tutto, poi con una nazionalizzazione delle masse. Il fatto è che non c’era mai stata prima nella storia la costruzione di un’identità nazionale – o continentale addirittura – che procedesse attraverso il negoziato tra le varie parti. Ma non c’è nessun altro modello alternativo alla guerra che sia altrettanto efficace. Nello spazio di un secolo c’è stata una moltiplicazione di Stati, che pare continuare.

Questo ironico paradosso fra il progetto «illuminato» paneuropeo e i secessionismi plurimi interni che ne scaturiscono è dovuto solo alla crisi?

Non necessariamente. Una volta alla base del nazionalismo c’era un complesso d’inferiorità di tipo coloniale, ora invece una parte non piccola dei nuovi nazionalismi nasce nelle zone ricche, penso ad esempio alle Fiandre, o alla Catalogna, o in Italia, alla Lega Nord. Trent’anni fa l’Irlanda era un Paese povero, l’Irlanda del Nord era molto più ricca. Ora le cose sono cambiate completamente: sono gli irlandesi (del sud) a non volere farsi carico della povertà dei loro connazionali nel Nord. Quarant’anni fa i nazionalisti scozzesi erano degli amabili eccentrici, come oggi i gallesi. Poi c’è stata la scoperta del petrolio nel Mare del nord. Non è improbabile che fra qualche mese i nazionalisti vincano il referendum, nonostante abbiano, per il momento, i sondaggi contro.

Torniamo alla sinistra britannica: questa “via europea al socialismo” non è fallita?

La narrativa dei laburisti degli ultimi cinquant’anni era difendere il capitalismo, tutelarlo, favorire la crescita per poi applicare una politica redistributiva. A differenziarla dalla destra era l’impiego del denaro: questa optava per l’alleggerimento fiscale, la sinistra per gli investimenti nel welfare e nel pubblico. La deindustrializzazione e deregulation sono stati un fenomeno lento, cominciato prima di Thatcher. Se ne parlava già negli anni Sessanta, lei non ha fatto che accelerarlo. Il crollo industriale più vistoso è avvenuto sotto il Labour che, rinunciando a competere nella manifattura low tech con l’Italia, o nell’high-tech con la Germania, ha investito tutto sulla finanza. Fino a Gordon Brown, che ancora a un anno dalla crisi, faceva un discorso alla City nel quale esaltava la prosperità che la finanza recava al paese.

Ma ha senso ripensare a un’Europa il più possibile coesa e votata a politiche redistributive di stampo keynesiano?

Per risolvere la crisi bisognerebbe dare più poteri a un’Europa che, con i nazionalismi crescenti, si sente sempre meno europea. Oggi, con l’indebolimento della politica, rafforzare lo Stato nazionale è difficilissimo se non impossibile. Una politica redistributiva è stata possibile nel periodo di massima crescita, come negli anni Cinquanta e Sessanta e su questo si è costruita la previdenza sociale. Ma è stato possibile grazie a una certa solidarietà tra connazionali. Che in Europa è già in crisi, basta guardare alla Lega Nord. Ora se è stato difficile chiedere ai cittadini di Stoccarda di sostenere la Germania dell’Est o ai lombardi i siciliani, figuriamoci fra Paesi diversi. Se è in crisi la solidarietà nazionale a maggior ragione lo sarà quella europea, perché il dislivello fra la coscienza europea e quello nazionale è ancora molto alto. E dunque mancano tutti i prerequisiti necessari alla redistribuzione: soprattutto quell’aumento costante del tenore di vita che non ridistribuisce nel senso dell’uguaglianza, bensì riduce il tasso medio di povertà. Se manca solidarietà sociale e la crescita a tutti i costi non è percorribile – per via del riscaldamento globale – la situazione diventa catastrofica.

Mentre la forbice della disuguaglianza anche in Europa è ormai larghissima.

Sì, anche se viene misurata in modo a volte ingannevole, e cioè solo da un punto di vista quantitativo. Il gap fra ricchi e poveri di un secolo fa era enorme anche qualitativamente. Mentre oggi, è il divario quantitativo a pesare. La differenza che c’era fra avere una carrozza e andare a piedi era molto maggiore a quella che c’è ora fra guidare una Lamborghini e una Fiat. Il fatto che sia aumentato il divario quantitativo della ricchezza non significa che quello del ventaglio di scelte lo sia allo stesso modo: ed è fondamentalmente questo a salvare il capitalismo.