Esiste una via per costruire un’Europa più vicina alle nostre vite, ai nostri bisogni e desideri, che non si esaurisca nel braccio di ferro – sinora peraltro perdente – sui bilanci pubblici e l’austerity? Tra «burocrati di Bruxelles», banche e Bce, conservatori e socialdemocratici, nazionalisti e razzisti? Più il tentativo di Tsipras, anch’esso prigioniero finora di un linguaggio economicistico?

Un altro discorso viene tentato da donne e gruppi del femminismo italiano, sabato scorso a Roma, a partire dai materiali di Via Dogana, intitolata all’«Europa di Simone Weil», e di Leggendaria, che pubblica il dibattito sul documento Dei legami e dei conflitti, testo del gruppo del mercoledì (sul manifesto l’8 maggio scorso, e sul sito www.donnealtri.it) che rovescia il paradigma della cura da obbligo femminile a leva per combattere un’incuria sociale e politica soprattutto maschile.

Il confronto, aperto da Bia Sarasini, è partito da Lia Cigarini. «Siamo arrivate a un punto di non ritorno», ha scritto su Via Dogana. L’affermazione che «la politica è la politica delle donne» non trova sufficienti conferme. Il guadagno di libertà che il femminismo ha portato alle donne sembra poter fare a meno di un impegno per cambiare la politica. Per Cigarini però ci sono nuove occasioni per rilanciare una iniziativa basata sul terreno simbolico delle relazioni e del linguaggio: l’Europa è un processo politico e costituente ancora in fieri. Il pensiero di Simone Weil è riferimento per una azione che punti a individuare le forme ancora sconosciute di una politica che le istituzioni della rappresentanza democratica stanno portando al fallimento.

Per esempio aprendo un dialogo col femminismo del Nord Europa, che oggi – nella crisi – vede quanto sia contraddittorio ed effimero il molto che è stato conquistato in nome delle «pari opportunità».

Maria Luisa Boccia ha convenuto che un rilancio sul piano simbolico – il valore della differenza dei sessi al posto delle differenze molteplici, più facilmente assumibili dalla logica neoliberale dominante – possa sostenere pratiche politiche e azioni capaci di ritrovare quella «stabilità e efficacia comunicativa» che oggi manca. E ha indicato, con la cura, altre parole di rilevanza simbolica: il lavoro (oltre la scissione tra produzione materiale e riproduzione della vita), l’immigrazione (per costruire alleanze non tra povertà e debolezze, ma tra le ricchezze e la forza di culture diverse all’incrocio).

Uno scambio avvenuto, con molte altre voci, all’indomani dello «sciopero sociale» in tante città italiane: ne hanno parlato Antonia Tomassini ( riserve sulla cultura «antagonista», ma almeno «qualcosa si muove») e Giulia Ragonese ( le connessioni virtuali e materiali nelle tante piazze come esempio di cura nel conflitto).

Ma questo discorso – si è chiesta Letizia Paolozzi – non rischia di rimuovere il soggetto maschile? Inteso sia nelle figure – come Juncker – che incarnano la politica che soffoca l’Europa, sia nella ricerca di possibili interlocuzioni?

Se la «politica delle donne» vuole parlare a tutti – ecco un pensiero di chi scrive – il nodo di una nuova relazione politica tra donne e uomini (diversa, per capirsi, da quella messa in scena dal paritarismo à la Renzi) non si può saltare. Anche se emergono, naturalmente, punti di vista diversi: «Non mi convince l’idea della cura come paradigma generale – ha detto Stefano Ciccone – semmai è un’esperienza controversa delle relazioni… ma non trovo luoghi per un nostro confronto». Alla fine si è anche detto: proviamo a costruirli.