In questi giorni di discussioni intorno al Def, giungono con sempre più insistenza dalla maggioranza dichiarazioni su come cambierà la politica economica a partire da maggio del prossimo anno. Il rinnovo del Parlamento europeo dovrebbe sancire la fine della vecchia Europa e dare vita a nuovi scenari più favorevoli al governo giallo-verde. Al di là dei decimali sul deficit e delle pressioni sullo spread, vale la pena provare a riflettere su questa prospettiva che pare incentivare l’attuale governo a tenere duro ancora sette mesi.

Appare evidente, infatti, che la trattativa in corso con le istituzioni continentali, e indirettamente, con i mercati, è segnata più che dai dettagli numerici dallo spirito con cui è stata ingaggiata. Tant’è vero che lo sforamento del deficit dei governi precedenti è stato ben superiore a quel 2,4% previsto per il 2019. Ma anche qui occorre fare una precisazione per non inseguire ingenuità. I deficit realizzati dai governi precedenti (si va dal 3,50 del 2011 fino al 2,30 del 2017) sono avvenuti in una fase progressivamente meno emergenziale, ora la fine del programma di Quantitative easing segna la conclusione del periodo anestetizzato dalla Bce per consentire ai paesi in difficoltà di migliorare le condizioni della loro finanza pubblica. Rilanciare con una previsione di deficit superiore a quella concordata dal governo precedente con l’Europa per i successivi tre anni significa contraddire la logica finora prevalente, fatta di rigore e austerità. Fin qui nulla di scandaloso, interessante però è capire la direzione di marcia della nuova eterodossia.

Il balletto sulle cifre fa pensare a una trattativa che in qualche misura si intende chiudere. Da qui il refrain sulla fine di questa Europa o sul suo licenziamento tra pochi mesi. Si prende tempo, insomma, in attesa che cambi lo scenario politico. Ma come potrebbe cambiare concretamente?

Se è difficile immaginare un completo ribaltamento nelle proporzioni tra europeisti di varia natura e sovranisti, non si può escludere invece un parlamento con una nuova maggioranza tra popolari, spostatisi nel frattempo ulteriormente a destra, e sovranisti. Questo inedito rassemblamento potrebbe allentare i cordoni rigoristi provenienti dall’alto, disinnescando il potere che attualmente la politica europea ha di allertare i mercati sulla tenuta continentale e evitando forse di mettere sotto i riflettori i paesi con i conti pubblici più fragili, ma poco più.

Si rimuove che anche un’Europa sovranista si fonderebbe su elevati tassi di competitività e su un’autocentratura nazionale. L’attuale governo, infatti, sta adottando lo schema tuttora in vigore, cioè si pone l’obiettivo di un ritorno alla crescita per ridurre il debito e alleggerire l’economia italiana, attraverso anche un parziale impegno sul fronte della domanda interna e degli investimenti, ma in definitiva in chiave di un recupero di competitività su scala internazionale.

Qui sta il limite: per fronteggiare i difetti strutturali (in primis la bassa produttività) non sembra esserci all’orizzonte un piano organico adeguato, nonostante l’effetto moltiplicatore ipotizzato, tanto più in un quadro caratterizzato da dazi e guerre commerciali che inducono il Fmi a ipotizzare una riduzione della crescita globale.

Se questo progetto mostrerà la corda presto, i nazional-populismi emergenti non saranno certo generosi, d’altronde non si capisce perché in un’Europa a trazione sovranista la Germania dovrebbe fare sconti sui conti italiani, come non si capisce perché Austria o Ungheria dovrebbero fare concessioni sulla ripartizione dei migranti.

Quando a dominare sarà definitivamente la logica ognuno per sé e nessuno per tutti l’Italia avrà i suoi bei problemi e non è detto che siano inferiori a quelli attuali. La stessa fine dell’euro o la costituzione di due monete (centro-periferia?) potrebbe non evitare di scivolare su questo piano inclinato.