Facili Cassandre, molti economisti eterodossi avevano giudicato troppo ottimistiche le pur modeste previsioni di crescita formulate dal governo Renzi. Questo sulla base della semplice verità keynesiana che la crescita del prodotto dipende nel breve come nel lungo periodo dalla crescita della domanda aggregata. E nessuno aveva mostrato, tantomeno il governo, da dove tale incremento della domanda sarebbe dovuta scaturire.

Questo se lo dimenticano persino alcuni economisti vicini alla sinistra quando invocano improbabili politiche industriali, impraticabili nel breve periodo e complicate – sebbene necessarie – nel lungo periodo. L’unica politica industriale efficace nel breve periodo, e presupposto di un intervento dal lato dell’offerta, è il rilancio della domanda aggregata.

Come mi scriveva in una mail Antonella Palumbo, valente collega di Roma 3: «è vero che il potenziale si contrae se la domanda rimane bassa per troppo tempo e la capacità produttiva si distrugge. Ma da qui a ritenere di non avere margini di espansione ci corre. In realtà la produzione è molto elastica, e con politiche appropriate, fortemente espansive ma anche mirate a eliminare eventuali strozzature, i margini di aumento della produzione sono altissimi».

Ça va sans dire che un aumento della domanda nel breve periodo può solo consistere di un aumento della spesa pubblica. Non avrei dubbi, se fossimo un paese sovrano dotato di una propria moneta, che una svalutazione sarebbe necessaria per recuperare la competitività esterna. Con la sovranità monetaria ci siamo tuttavia svenduti la possibilità di una politica economica minimamente autonoma. Nelle condizioni attuali di un quadro europeo mantenuto recessivo dalle politiche di austerità, la sfida all’Europa di una politica di bilancio espansiva si tradurrebbe in forti disavanzi esteri, andando così soprattutto a beneficio altrui. Tale politica verrebbe probabilmente giudicata avventurista dai mercati finanziari che ci negherebbero i necessari prestiti portandoci rapidamente a una nuova crisi degli spread. Certo, potremmo almeno allinearci a Francia e Spagna che da anni non rispettano i vincoli sul disavanzo pubblico e per questo hanno risultati migliori dei nostri. Probabilmente giocoforza lo faremo, ma si tratta di misure al margine.

I mercati finanziari sono intanto in allerta. L’abbondante liquidità creata dalle grandi banche centrali e le rassicurazioni di Draghi nel famoso discorso del luglio 2012 che avrebbe difeso a tutti i costi l’euro hanno condotto a una forte riduzione degli spread. Ma con la crisi tuttora in corso potrebbe presto terminare l’infatuazione dei mercati finanziari per i titoli di Stato dell’Europa periferica. I segni già si sono visti ieri col balzo degli spread. E allora saranno dolori, o forse no. Forse il redde rationem con l’Europa avrà finalmente luogo. Infatti, sebbene concordi con Fassina e altri (v. il manifesto di ieri) che Renzi e Padoan non abbiano avuto né l’intelligenza né la capacità di andare in Europa con le idee chiare su cosa si dovesse veramente fare, ho molti dubbi che il fatidico pugno sul tavolo possa smuovere di un millimetro la cancelliera tedesca e il suo impero di Stati satelliti. Né ho molta fiducia che possa sorgere un movimento sociale di opposizione tale da smuovere la situazione, sebbene appoggi in pieno il referendum sul fiscal compact, un’occasione importante. La verità è che solo un drammatico aggravamento della crisi oltre i livelli conosciuti nel 2011/2, che renda manifesta l’impossibilità di questo Paese di rimanere nella moneta unica, potrà cacciarci fuori da questo pantano. Che dio ci eviti poi la vendetta dell’impero.