Uno spazio multiforme, attraverso il quale sono transitati nel corso dei secoli uomini e merci, tecniche e fedi religiose, immagini e racconti, monaci e mercanti, esploratori e avventurieri, banditi e pellegrini, venne chiamato – dal tardo Ottocento in poi – con la suggestiva e fuorviante denominazione «Via della Seta»: quell’insieme di reti commerciali interregionali sin dalla fine del I millennio a.C. ha collegato l’Asia all’Europa e al Mediterraneo. Vi circolavano, in realtà, molti generi di prodotti: oltre ai filati e ai tessuti, c’erano pietre semipreziose, ambra, spezie, metalli, vasellame, vetro, pellicce, medicinali, cavalli, e perfino schiavi. Era uno spazio di concretissime interazioni, che ha formato l’oggetto di fascinose affabulazioni, e forse più d’ogni altro spazio ci rivela come, sin da un’antichità remota, e non solo dai tempi di Internet, l’esperienza umana è costitutivamente fatta di connessioni.

Oggi questo vasta estensione territoriale e non solo, che ha rivestito a lungo un ruolo di primaria importanza nell’economia planetaria per conoscere poi in età moderna l’eclissi e il declino, torna alla ribalta nella poderosa riconfigurazione dell’ordine geopolitico e geoeconomico conseguente al recente protagonismo della Cina.

Illusioni ottiche
Un aggiornato dossier sul numero di Inchiesta (luglio/settembre 2019) dà conto del progetto di una «Nuova Via della Seta» (Bri, Belt and Road Initiative) appena presentato dal governo della Repubblica Popolare Cinese come erede e prolungamento della antica strada: è un gigantesco piano strategico di sviluppo infrastrutturale finalizzato a incrementare le connessioni terrestri e marittime fra Asia, Europa e Africa, destinato ad avere un enorme impatto sugli assetti globali, la cui realizzazione dovrebbe coinvolgerebbe sessantacinque paesi, popolazione dei quali equivale a circa il 70% di quella mondiale.

Già, nel 2016, la grande mostra Dall’antica alla nuova Via della Seta (a Roma, a cura di Louis Godart e Maurizio Scarpari) e l’anno seguente il libro di Franco Cardini e Alessandro Vanoli, La Via della seta, una storia millenaria fra Oriente e Occidente (Il Mulino 2017) avevano ripercorso le vicende di quelle antiche strade fino alle soglie dell’età contemporanea, mettendone in rilievo la decisiva importanza: «un percorso su cui poggiano le nostre radici». Riattraversarlo è fondamentale per comprendere la sostanza del nostro presente, e del nostro futuro, poiché ci induce a riconsiderare radicalmente i nostri pregiudizi eurocentrici, l’illusione ottica secondo la quale l’Occidente sarebbe sempre stato il motore delle vicende umane, mentre ci mostra come per un periodo lunghissimo prima dell’età moderna «la storia fu invece dell’Asia, ed era l’Asia il cuore della civiltà».

Orizzonti paesaggistici
Un grande contributo ad approfondire questo confronto ci viene ora dal volume Le Vie della Seta Popoli, culture, paesaggi (Einaudi, «Grandi opere», pp. 480, € 85,00, con un bellissimo corredo iconografico a cura di Susan Whitfield, autorevole specialista e curatrice della collezione di manoscritti dell’Asia centrale alla British Library). Frutto del lavoro collettivo di un vasto team internazionale (più di ottanta studiosi di varie provenienze, dal British Museum al Collège de France, dall’Università Beida di Pechino alla Columbia, da Teheran a Vienna, da Bangkok a Kyoto, da Tbilisi a Oxford) il volume disegna un quadro multiforme che, dopo due parti iniziali dedicate alla mappatura e alla fotografia, si articola in sezioni centrate, anziché su ripartizioni cronologiche o politiche, su diversi paesaggi: steppe, montagne e altipiani, deserti e oasi, fiumi e pianure, mari e cieli. Questa prospettiva paesaggistica è limpidamente e persuasivamente motivata dalla curatrice in relazione alla caratteristica cruciale degli orizzonti evocati: «Nelle Vie della Seta è centrale l’interazione oltre i confini, siano essi cronologici, geografici, culturali, politici o immaginari». In pagine scrupolosamente documentate, vengono così ricostruiti i percorsi delle merci, del denaro, delle tecniche produttive, delle conoscenze, le vie di diffusione delle religioni – dal buddhismo al cristianesimo nestoriano all’islam, le circolazioni dei testi – le interazioni di influenze artistiche, di cui fornisce una delle attestazioni più significative e famose la scultura antropomorfa che connota l’iconografia buddhista, e che tramite il Gandhara si irradia dall’India fino in Cina.

Cosa voglia dire il termine Eurasia lo si può capire a fondo osservando le fattezze e i panneggi inequivocabilmente greci dei Buddha che essa rappresenta; e lo si può percepire anche ammirando il blu oltremare del manto di una nostra Madonna quattrocentesca, la cui intensità è dovuta al lapislazzuli proveniente dall’Indu Kush del quale già Marco Polo, avendone visitato la miniera, celebrava l’ineguagliabile splendore.

Tra i vari argomenti, anche alcuni poco noti o poco frequentati: dal sistema di controllo dell’acqua nelle oasi alla pirateria e allo schiavismo nel Mar Cinese Meridionale, dai rapporti fra i monasteri buddhisti e l’economia delle città all’interazione fra i popoli delle steppe e i cinesi, ben più complessa di quanto si sia soliti immaginare.

L’egemonia cinese
Nel suo insieme, tutto il volume – plurale e pluralistico sin dal titolo – si caratterizza significativamente nel contrapporre una molteplicità di punti di vista differenti all’univocità e alla invalsa compattezza di una certa Grande Narrazione sinocentrica, in cui perpetuamente domina l’egemonia prestabilita di un gigantesco protagonista e tutti gli altri (le cosiddette «minoranze») figurano da minuscoli comprimari.

Considerata dagli scenari plurali dell’Asia centrale, non solo tutta la vicenda delle Vie della Seta, ma la stessa storia della Cina appare in realtà assai più frastagliata, davvero molto più varia di quanto generalmente non figuri.