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Eugenio De Signoribus, custodia lessicale per un nuovo inizio

Eugenio De Signoribus, custodia lessicale per un nuovo inizio

Poeti italiani «Nel villaggio oscuro. Poetica e poesia», da Manni

Pubblicato più di un anno faEdizione del 4 giugno 2023

Se c’è un’immagine, una sola da cui partire per attraversare l’ultimo libro di Eugenio De Signoribus, Nel villaggio oscuro Poetica e poesia (Manni, € 14,00, pp. 125), è quella dello «stato di sosta», che il lettore incontra nelle pagine di avvio: uno stato, come scrive De Signoribus in una delle brevi prose che occupano la prima parte, «sempre provvisorio (…) fino a quando non si sente la necessità di una ripartenza». L’impressione è che il poeta di Cupra Marittima stia attraversando precisamente questo punto intermedio, una nebulosa affascinante entro cui si attorcigliano diversi percorsi, diversi «tempi interiori». Perché De Signoribus arriva a questo libro – che inaugura per Manni la collana «La pantera profumata», nata sotto la splendida stella leopardiana di Antonio Prete – dopo un trittico già notevole. L’«alta / altissima marea» ha lasciato sulla spiaggia, nel solo 2022, tre splendidi doni: prima il poemetto L’uscita (Il Canneto, a cura di Patricia Peterle, Stefano Verdino e Lucia Wataghin), con la sua dolente preoccupazione per le sorti della «casa» per eccellenza, il pianeta Terra sull’orlo della catastrofe ambientale; poi è stata la volta di Un manoscritto domestico (Portatori d’acqua), con le sue prose memoriali (solo in parte già edite). Infine, nello scorso autunno, è arrivata la riproposta del primo libro di versi di De Signoribus, uscito nel 1986, cioè Case perdute (Giometti & Antonello): una riedizione importante, perché accresciuta e largamente rimaneggiata, con alcune modifiche strutturali e varie aggiunte che documentano in maniera più ampia, quarant’anni dopo l’uscita della prima versione della raccolta, gli inizi di questa poesia, inclusi i sentieri interrotti, le «tracce» rimaste fino ad ora sepolte o quasi (è un’operazione che si giova delle cure di Francesca Santucci, nonché degli interventi di Simona Morando e Massimiliano Tortora, che lasciano anche presagire un più vasto lavoro di risistemazione critica, davvero auspicabile per questa ormai lunga e luminosa parabola poetica).

Sembra comunque, questo «punto di sosta», perfettamente intonato all’etimo profondo della scrittura di De Signoribus, al suo muoversi liberamente lungo la freccia del tempo, e in due direzioni in certo modo contemporanee: un futuro immaginoso, sempre veniente; e, d’altra parte, la memoria – spesso dolorosa – del passato. De Signoribus da sempre è stretto dentro questa morsa ostinata e paradossale, come sembrava testimoniare, in fondo, già l’epigrafe di Charles Olson che apriva proprio Case perdute: «ciò che non cambia è la volontà di cambiare». Oppure, si pensi al primo testo di Nel principio del giorno (2000), con il suo esplicito testa-coda, (dopo verso prima), contenuto già nel suo verso-titolo. Intanto Nel villaggio oscuro – che forse non a caso comincia, a sua volta, con l’immagine di una innocente «condizione di soglia» – dice soprattutto di un poeta sempre sensibilissimo all’aria del secolo, ai suoi «tempi virali» così come ai suoi «tempi bellici» (la pandemia e la guerra sono infatti, inevitabilmente, tra i referenti concreti di questa sua recente stagione). Un poeta che, di nuovo, mentre esprime tutto il proprio rigetto per un presente che è il luogo osceno di «un’incolmabile offesa», decide di concretizzare il suo istinto di «custodia» – parola-chiave per De Signoribus – verso il mondo e verso i propri simili con l’unico, povero talismano a sua disposizione: la lingua. Basterà citare ancora dalle prime pagine: «L’amore per la lingua è il più fedele. Ha in sé la potenza unica della scoperta della parola. (…) L’amore della lingua contiene gli altri amori, dal loro annuncio alla loro consumazione. Va oltre. Salva. Forse salva». In De Signoribus, in effetti, c’è una vastissima capacità di accoglienza lessicale, che va dall’alto al popolare: come a voler rivitalizzare continuamente una lingua che rischia di uscire anestetizzata dal contatto con il «tritume gergale contemporaneo». In questo senso è fondamentale anche la miccia del neologismo, che sin dall’esordio accende e guida una dizione imbrigliata in una griglia metrica altrettanto lavorata («gargùglia» è qui suggestivamente definito «il nondire che circola solo in gola», «blablìo» è un «balbettìo vuoto», ecc.). L’invenzione schietta sembra riportare la realtà tutta, anche se solo per un attimo, a una condizione di partenza, a un nuovo inizio o utopia albale: «e nei graffiti reperire il segno / d’un altro seme e nel silenzio / entrare in quell’inizio / che non conosce il male e nessun pegno». Ma altrettanto e forse anche più sfruttato, da De Signoribus, è il pedale «locale», ovvero l’uso di parole ripescate dal materno grembo marchigiano (per restare al solo Villaggio, ecco un «brecco», ovvero un chicco di pietrisco, «traio» per trascinare, «ciaffo» per cosa di poco valore, «ciaffuglio» per il parlare incomprensibile da dietro la mascherina, «sframicare» per frantumare in minime parti, ecc.).

Non si tratta, è chiaro, di un mero espediente stilistico, tanto meno di un vacuo «sperimentalismo»: dare alla luce una parola – vergine o riesumata dagli strati della lingua «che più non si sa» – significa ricominciare a credere nelle possibilità di un mondo nuovo, sottrarsi alla disperazione, al disincanto che rischia di colpire chi vive «senza fede nell’ora». Ha scritto Giovanni Giudici che De Signoribus «sembra non conoscere rivali nel suo saper materializzare l’ineffabile». È in effetti la strenua materialità di questa poesia a rendercela cara, una volta di più. E altrettanto cara è una sensazione che poche altre esperienze poetiche del nostro tempo sanno trasmettere con questa intensità: che la poesia sia, certo, la prigione individualissima del «proprio idioma», eppure sia anche voce collettiva, parola corale (prova ne sia, fra l’altro, il pensiero degli amici, ritornante lungo gli anni), un magnifico «frammento» che non ha dimenticato l’intero da cui proviene: è anche questo a fare di De Signoribus uno dei nostri poeti più veri, più preziosi.

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