«Guai a vinti!», secondo la celebre espressione attribuita da Livio e altri storici romani a Brenno, capo dei Galli Sènoni che invasero Roma nel IV secolo a.C. Guai per tante ragioni, fra le quali è una a prevalere di gran lunga: che saranno i vincitori a scrivere la storia. In questo modo una semplice sconfitta (dettata da rapporti di forza) si trasformerà in una volontà suprema (del Fato, di Dio, della Civiltà o Razza superiore), e i più deboli verranno marchiati a guisa di «dannati della terra», perché così hanno decretato le leggi superiori e insindacabili della Storia.

Eppure, a volte un solo piccolo episodio riesce a smontare i costrutti manichei dell’ideologia dominante. Come quello riferito da Hannah Arendt in una lettera a Karl Jaspers del 3 gennaio 1960: «A tutte le ultime classi delle scuole medie di New York è stato assegnato un tema (Immaginarsi un modo per punire Hitler). Ed ecco cosa ha proposto una ragazza nera: si dovrebbe mettergli addosso una pelle nera, e poi obbligarlo a vivere negli Stati Uniti!». A raccontarci la vicenda quanto mai centrale della mistificazione storica, con tanto di una mole impressionante ma sempre pertinente di aneddoti, riferimenti, citazioni, è Domenico Losurdo (professore emerito di filosofia nell’Ateneo di Urbino, in questi giorni insignito di una laurea honoris causa da parte della prestigiosa Universidade Federal Fluminense in Brasile), di cui è uscito Il revisionismo storico. Problemi e miti, Laterza, pp. 345, euro 24 (contemporaneamente all’edizione inglese, ancora più ampia: War and Revolution. Rethinking the Twentieth Century, traduzione di Gregory Elliott, pp. 359, Verso, London).

Nella frase della giovane ragazza nera citata da Arendt si concentra una parte buona e sostanziale della vicenda che Losurdo ricostruisce, e che si dipana lungo quattro secoli di storia occidentale, a partire dalle rivoluzioni inglesi del Seicento, passando per quella americana, francese e bolscevica. Fino ad arrivare alla data cruciale del 1989, in cui il tracollo dell’ideologia e del mondo comunista ha lasciato campo aperto a chi intende riportare indietro le lancette della storia, per costituire un nuovo «impero» avvalendosi delle armi convenzionali e di quelle economiche.
Nel mezzo l’autore ricostruisce, con dovizia di particolari e aneddoti sorprendenti (ovviamente ignorati dall’ideologia dominante), il grande rimosso della agiografica e autoreferenziale storiografia occidentale: ossia quei secoli di colonialismo e imperialismo in cui si sono depredate, sfruttate nonché massacrate intere popolazioni ed etnie. Producendo quella miseria e disumanità radicali che ancora i migranti di oggi portano ben delineate sui loro volti.

La ricostruzione si fa ancora più serrata e implacabile quando si tratta di portare alla luce il grande non detto che riguarda la nazione portabandiera dell’Occidente: gli Usa. Il primo vero stato razziale della vicenda umana, quello in cui si è compiuto il genocidio dei pellerossa e lo sterminio di tanti neri importati dall’Africa per uso commerciale. Ma anche quello in cui sono nati i primi veri campi di concentramento della storia contemporanea dove, in nome della guerra totale (in occasione del I conflitto mondiale) i governi americani fecero rinchiudere cittadini americani con origini nipponiche o tedesche, marchiandoli con quella stella gialla che poi sarebbe stata protagonista di nefandezze ulteriori.

In questo modo, il lettore viene condotto per mano, attraverso rievocazioni puntuali e rigore storiografico, a una delle tesi più forti contenute nel libro: le origini americane del III Reich. È lo stesso Hitler a dichiarare espressamente nel suo Mein Kampf tutta la sua ammirazione per l’America razziale e imperialista, fino ad arrivare a prefigurare un’alleanza dei tre grandi imperi (inglese, americano e tedesco) per realizzare la «razza eletta». Come sorprendersi, del resto, tenendo conto che stiamo parlando del paese che istituì per legge il divieto di «miscegenation» (matrimoni misti), e dove ancora nel 1967 erano sedici gli Stati in cui risultavano in vigore leggi che proibivano i matrimoni interrazziali. Lo stesso termine untermensch (sottouomo), con cui viene legittimata e su cui viene costruita la distruzione delle civiltà inferiori, deriva dall’inglese «underman» (utilizzato da Stoddard), mentre nel libro si ricorda che è stata proprio l’America a finanziare e promuovere, con grande dispendio di risorse e proclami, quell’eugenetica che avrebbe avuto un grande peso nel regime hitleriano.

Per chi vuole, e può, cogliere importanti riflessi del mondo contemporaneo, è significativa la ricostruzione che Losurdo compie della dominazione occidentale nei confronti della Cina, fra i paesi più benestanti e civili del mondo (nell’Ottocento) fino a che le potenze nostrane non hanno deciso di condurre una guerra distruttiva, appoggiando il regime liberticida della dinastia manciù e ponendo le basi per quei sentimenti anti-occidentali che invece erano stati del tutto assenti fino a quel momento. Le pagine conclusive, infine, si scagliano contro l’illustre storico contemporaneo Niall Ferguson, ideologo ufficiale dell’America e dell’Occidente contemporanei, invitati senza mezzi termini a ricostituire l’«impero» e a utilizzare la guerra per generare un «profitto reale sotto forma di bottino e di indennità a carico degli Stati o territori sconfitti».

Una vera e propria controstoria dell’Occidente, quella operata da Losurdo, contro i troppi revisionismi, ma anche a favore di una memoria collettiva che, in questi giorni, vorrebbe respingere dalle nostre coste milioni di figli di una disperazione prodotta da noi stessi. Storia antichissima, visto che già la democraticissima potenza ateniese giustificava lo sterminio dei Meli argomentando che è la stessa legge di natura a decretare il governo del più forte. Con buona pace di quei «deboli» a cui non è dato neppure il riconoscimento di una Storia raccontata con quell’arnese indispensabile che chiamiamo onestà intellettuale.