La monografia dedicata a Ettore Sottsass (Phaidon-Electa, pp. 470, euro 160) non esaurisce di certo lo scavo critico su uno dei nostri indiscussi maestri dell’architettura e del design, ma l’altissima qualità grafica con cui è stata composta sarà difficile da eguagliare. Julia Hasting, che l’ha disegnata, si è posta come sempre in ascolto del soggetto da raccontare, e nel caso di Sottass è riuscita con sensibilità a riprendere alcuni suoi temi restituendoci un libro che avrebbe potuto concepire lui stesso. Il retro di copertina del volume, di formato più lungo, rigira sul davanti come un coperchio che copre una scatola, così anch’esso è diventato un «contenitore impassibile» come quelli che popolano il mondo domestico sottsassiano, e che nei Superbox (Poltronova) della fine degli anni sessanta hanno un illustre riferimento. All’interno, invece, le illustrazioni, come i testi che le precedono, sono stampate su carte disomogenee per formato e peso come se fossero state raccolte al momento. L’interesse della grafica tedesca per le qualità tattili delle superfici e della loro varietà sensoriale è la stessa che Sottsass cercava nei materiali: dalla ceramica fino ai laminati (Abet). È, però, nel colore che la Hasting rende omaggio alla poetica di Sottsass: tenue di un verde acqua la copertina, variopinto e saturo nei cartoni che suddividono i vari capitoli. «Ogni colore, ogni materia vecchia o nuova porta con sé – scriverà nella sua autobiografia Pensieri di notte (Adelphi, 2010) – l’eco della propria storia».

È questa la ragione per la quale il colore è in Sottsass così importante: è sempre indissolubile dalle sue origini, dal contesto e dalle sue finalità. La scoperta del colore è possibile farla risalire a quando aveva vent’anni. Nel 1937 è a Parigi con il padre per la visita all’Esposizione Universale ed è attratto non tanto dai quadri di Picasso, Gauguin, Bonnard o Matisse, ma da «come si fa a fare una pittura» e dal colore com’è selezionato e distribuito. Il colore non è mai stato il capriccioso espediente per decorare un oggetto né la prosecuzione conveniente della sua pratica di artista. Il suo costante interesse per la spiritualità di altre culture lo potrebbe avvicinare, forse, alle tesi di Rudolf Steiner, che sosteneva che non si può parlare di soggettività del colore perché è il nostro io dentro al colore, così che «il pittore riceve ogni volta dai colori stessi la risposta alla domanda: in che modo i colori vogliono essere fissati».

Tuttavia, al di là dei suoi nessi tecnici e psicologici, il colore è per lui solo uno degli elementi per individuare nuovi modi nel realizzare oggetti e spazi dell’abitare che siano emotivi ed empatici «senza distruggere niente dell’insegnamento poetico dei grandi maestri» della modernità architettonica. Una modernità che egli conosce direttamente attraverso prima il padre – architetto educato con Friedrich Ohmann nell’ambiente della Wagnerschule – e poi a Torino, dove si trasferisce all’età di dodici anni e dove si laurea nel 1939, centro vitale del Razionalismo con Giuseppe Pagano, Alberto Sartoris, Luigi Levi Montalcini. È un bene che nell’introduzione Deyan Sudjic abbia sottolineato come «Sottsass si sia sempre definito architetto» e con quale coerenza egli abbia ricercato soluzioni all’impasse nel quale negli anni cinquanya, con l’International Style, precipita l’architettura. Dalla fondazione nel 1945 della sezione torinese dell’Associazione per l’Architettura Organica (APAO) fino agli anni ottanta con lo studio milanese Sottsass Associati non smette di elaborare una sua personalissima concezione dello spazio domestico e dei luoghi per la collettività, che negli ultimi anni esprime in ville di inedita qualità non solo formale ma concettuale: da Casa Wolf in Colorado a Casa Mourmans passando per le zurighesi Bischofberger e Müller a Casa Olabuenaga nell’Hawaii e Yuko a Tokyo.

È vero, quindi, come scrive Francesca Picchi nel suo lungo saggio di apertura, che Sottsass «nell’arte può trovare gli elementi per un ampliamento della sua visione in architettura». In particolare, lo affascina e preoccupa la realtà plastica degli oggetti inserita nello spazio. «Quando vent’anni fa mi lamentavo perché non mi lasciava in giro una mascherina messicana o una paglia peruviana – ricorda la sua prima moglie Fernanda Pivano – mi diceva che ogni oggetto deve avere un suo spazio dove potere esistere». Anche la pittura risponde alle stessi leggi e interagisce con l’ambiente che l’accoglie. Si spiega così il suo interesse per la scultura e il sodalizio con quegli artisti sensibili a questa specifica visione dell’arte: da Burri a Capogrossi, da Asger Jorn a Scanavino e a tanti altri. Anche i suoi progetti d’interni e di allestimento per mostre e fiere tendono a questa finalità e vi si dedica con metodica cura fin dal dopoguerra, negli anni cioè che lo vedono impegnato insieme al padre alla redazione delle lottizzazioni per l’INA-Casa in diverse regioni italiane. Ognuno di questi progetti è diretto a una rivisitazione critica della funzionalità degli spazi e delle cose in direzione di quel «Modernismo mediterraneo» che rifiuta forme troppo rigide e austere. Nel 1972, quando partecipa alla memorabile esposizione newyorkese del MoMa, Italy. The New Domestic Landscape, è nel pieno del fermento della controcultura radicale e vicino al gruppo fiorentino Superstudio del suo amico Andrea Branzi. Con il suo allestimento fatto di contenitori modulari (Kartell), che possono essere raggruppati o dispersi nell’ambiente ed assumere «forme sempre nuove, sinuose come un serpente o rigide come la Muraglia Cinese», chiarisce ciò che per lui è rilevante: «decondizionare» e «neutralizzare» lo spazio affinché l’oggetto possa ancora trovare, oltre la sua funzione, una ragione per esistere. «Colorato, decorato, comunicativo» (Branzi), questo processo ha il suo apice nella lunga collaborazione con l’Olivetti, che va dal 1958 (calcolatore elettronico Elea) al 1970 (addizionatrice Summa-19).

È con l’azienda di Ivrea che Sottsass sperimenta con successo la rappresentazione figurativa dell’oggetto nei luoghi dell’industria. Il «paesaggio» che egli compone con macchine e sistemi di arredo (Synthesis 45) olivettiani è quello ordinato su rigorosi principi di modularità e flessibilità onde evitare, come si preoccuperà di dire, di «assomigliare a quello di una periferia urbana». Lo spazio industriale che immagina è «silenzioso, neutro, ordinato, ripulito da protagonismi visivi» (Picchi), l’opposto di quello neomoderno di Memphis che Sottsass prefigura all’inizio degli anni ottanta insieme ai suoi più stretti collaboratori e con Barbara Radice, sua seconda moglie.Come per il gruppo Alchymia dal quale Memphis ha origine, non si tratta più di credere nei valori etici della «buona forma» (Gute Form) industriale, ma di assecondare con ironia la relatività e l’incompiutezza della modernità, sconfinando anche nell’«elogio del banale» purché parlante uno stato d’animo. È convinzione di Sottsass che la critica alla civiltà dei consumi sia fragile, accidentata e priva di solidi argomenti non potendo più contare sull’ideologia (razionalista). La sua intera carriera di progettista e di artista dimostra quanto importante fosse riflettere e sperimentare nuove strategie comunicative per non ridurre l’architettura e il design all’afasia.
Per finire, la monografia su Sottsass può essere sfogliata anche come un album familiare di fotografie per la quantità di spazio dato alle immagini che raccontano i suoi viaggi, e i suoi incontri con amici, artisti, colleghi, restituendoci un mondo vitale di relazioni e amicizie. Un mondo che non smetteremo di esplorare perché anche noi come Sottsass amici «della gente incerta, perplessa, modesta che cerca di capire».