L’archeologo Massimo Pallottino definì felicemente ‘romanzo etrusco’ le molteplici declinazioni che il mito degli Etruschi ha conosciuto dal Rinascimento in poi. Alla nutrita bibliografia sull’argomento si aggiunge ora un informatissimo saggio di Martina Corgnati – L’ombra lunga degli etruschi Echi e suggestioni nell’arte del Novecento, Johan & Levi editore, pp. 240, e 24,00 – dedicato alla ricezione degli Etruschi nel cosiddetto ‘secolo breve’. Nel corso di quest’ultimo, argomenta l’autrice, docente all’Accademia di Brera, essi «sono stati sottoposti a un processo di metabolizzazione profonda che ha coinvolto artisti, intellettuali, registi, fotografi, e produttori, a vario titolo, di cultura di massa».
Tutto cominciò con la scoperta, nel 1916, dell’Apollo di Veio: fu l’epifania abbagliante di un canone di bellezza lontano dagli stereotipi un po’ algidi dell’arte greca. L’Apollo che cammina, come fu chiamato, affascinò proprio per la sua anticlassicità e sembrò dire agli artisti: venitemi dietro. La rivista «Atys» dedicò nel 1918 un numero all’arte etrusca, ma anche altre riviste influenti come «Dedalo», diretta da Ugo Ojetti, diedero agli Etruschi a partire dagli anni venti ampio spazio. Nel 1926 sul manifesto della prima esposizione di Novecento Italiano, il movimento di giovani artisti animato da Margherita Sarfatti che voleva farsi promotore del rinnovamento dell’arte italiana, campeggiava paradossalmente proprio l’Apollo di Veio, vecchio di venticinque secoli. La contraddizione era solo apparente: Novecento preconizzava, in polemica con gli eccessi delle avanguardie futuriste, il ritorno all’ordine. Come «Valori Plastici» e «La Ronda», voleva recuperare la tradizione o, come si diceva all’epoca, il ‘genio della nazione’; e quella etrusca fu sentita come un’arte indigena, schietta e originale: le fondamenta su cui costruire un’estetica nuova nel segno di un antico non di maniera. Se, come disse con felice sintesi Emilio Cecchi, l’Apollo di Veio trionfò sull’Apollo del Belvedere, ciò avvenne perché era in sintonia con le tendenze dell’arte contemporanea: il cubismo e l’espressionismo, la scoperta dell’arte africana e dei primitivi italiani avevano spianato la strada.
Il fascino esercitato dalle forme semplici, perfino un po’ grossolane, dell’arte etrusca (un’arte ‘da pasticcieri’ la definì il tarquiniese Vincenzo Cardarelli) portò molti scultori italiani a proclamarsene eredi. Il vessillifero di questa tendenza, Arturo Martini, frequentò assiduamente il museo di Villa Giulia a Roma, e fu talmente influenzato dai manufatti etruschi, specie dai prodotti della coroplastica popolare, da affermare: «Io sono il vero etrusco; loro mi hanno dato un linguaggio e io li ho fatti parlare, li ho espressi». E il suo allievo Marino Marini proclamava con non minore orgoglio: « Io sono etrusco! Lo stesso sangue riempie le mie vene . In Martini e in me rinasce l’arte etrusca, noi continuiamo da dove loro si sono fermati».
Corgnati prende sistematicamente in esame le suggestioni etrusche presenti, in modo ora esplicito ora allusivo, negli artisti dell’epoca: Carrà, Andreotti, Messina, Scipione, Antonietta Raphaël, i fratelli Basaldella (Afro, Mirko e Dino) e molti altri. L’incontro con l’arte etrusca fu particolarmente significativo per Massimo Campigli, che ricordò a questo proposito il coup de foudre che ebbe nel 1928 al museo di Villa Giulia : «Comincia da quell’incontro con gli etruschi la mia pittura tipica , m’ero negato per anni ogni lirismo. Era una pittura infelice. E a cominciare dal ’28 è una pittura felice». Dobbiamo credergli. Ma Corgnati opportunamente sottolinea che insieme agli Etruschi sono presenti come fonte di ispirazione in Campigli l’arte del Fayyum, quella mesoamericana, quella africana; sicché il termine ‘etrusco’ sussume in realtà, in lui come in altri, tutto ciò che è anticlassico. Più precisi, anche se meno numerosi, appaiono i riferimenti all’arte etrusca in Sironi e Severini. Essi però non contrappongono il mondo etrusco a quello classico, ma ne fanno l’antecedente di quello romano, «sobrio, rustico, potentemente originale», quello stesso di cui il fascismo rivendicava l’eredità.
È questo un tema che si sarebbe potuto approfondire. All’inizio, infatti, il fascismo si appropriò degli Etruschi in chiave nazionalista (non erano stati loro a dare a Roma i fasci e il trionfo?). Ma quando nel 1938 arrivarono le leggi razziali, gli Etruschi diventarono un problema politico: dato che la loro lingua non era indoeuropea, si doveva ammettere che il popolo che aveva dominato Roma trasformandola da villaggio a metropoli (la ‘Grande Roma dei Tarquini’) non apparteneva alla razza ariana. Gli studiosi fascisti si arrampicarono sugli specchi per provare il contrario, adattandosi, faute de mieux, ad abbracciare la tesi dell’antropologo tedesco Eugen Fischer, il quale faceva degli Etruschi una razza a sé stante, caratterizzata somaticamente dal naso aquilino. Di qui la celebrazione dei grandi italiani dal naso aquilino, a cominciare da Dante. Si impose comunque l’idea, gradita al regime, che Roma aveva saputo assimilare le razze non ariane senza compromettere la sua purezza. Per provarlo, uno studioso per altri versi serio come Pericle Ducati, usò proprio la scultura. Confrontando due statue etrusche famose, l’Obeso e l’Arringatore, sostenne che la prima appartiene a una razza in declino, mentre la seconda, più recente, testimonia i miglioramenti prodotti dall’integrazione con una razza superiore.
Nel dopoguerra l’entusiasmo per gli Etruschi scema un po’. Se già nel 1942 Bianchi Bandinelli, in un saggio intitolato Palinodia, aveva definito l’arte etrusca irrimediabilmente inferiore a quella greca, nel 1955 Roberto Longhi fu addirittura sferzante: «non abbastanza colti per essere almeno manierati; non incolti abbastanza per restare ingenui, gli artigiani etruschi, fra tutti i loro notissimi demoni scelgono per l’arte quello della banalità». Il che non impedì che artisti importanti come Manzù e Greco continuassero a manifestare interesse per gli Etruschi. Non fa eccezione neppure Alberto Giacometti, anche se è da abbandonare – come dimostra Corgnati con solide pezze d’appoggio – l’idea diffusa che la sua Femme debout sia stata ispirata direttamente dal bronzetto etrusco noto come Ombra della sera.
Anche le Reclining Figures di Henry Moore denunciano il debito verso i personaggi recumbenti sui sarcofagi etruschi, e lo stesso si può dire di certe opere di Leoncillo. Meritatamente famoso è L’Etrusco di Michelangelo Pistoletto, figura antica che tocca la propria immagine riflessa in uno specchio e che, come spiega l’artista, «viene dal passato ma col suo gesto indica il futuro».
In pittura si impongono i nomi di Pinot Gallizio e soprattutto di Mario Schifano, l’artista recentemente celebrato con una mostra a Villa Giulia, in cui da giovane aveva oscuramente lavorato come tecnico disegnatore e dove gli Etruschi, per sua stessa ammissione, gli erano entrati sotto pelle. Ma suggestioni etrusche affiorano anche in figure che operano in generi considerati – a torto – minori, come la ceramica: Gio Ponti e Roberto Sebastián Matta.
Cos’è stata, in conclusione, l’arte etrusca per quella del Novecento? La risposta di Corgnati, con la quale si può convenire, è: «citazione o nostalgia, messinscena o ironia, atmosfera o ibridazione, esercizio formale o memoria; o tutto insieme».