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Etruschi, costruzione identitaria di un archetipo italiano

Etruschi, costruzione identitaria di un archetipo italianoClaudia Cardinale (Sandra) nel film di ambientazione etrusca «Vaghe stelle dell’Orsa...» di Luchino Visconti, 1965, foto Ullstein Bild via Getty Images

Ideologia e storia Dalla scoperta dell’Apollo di Veio al fervore degli studi, Andrea Avalli analizza l’uso politico dell’Etruria tra fascismo e dopoguerra: «Il mito della prima Italia», da Viella

Pubblicato 2 mesi faEdizione del 21 luglio 2024

«Gli etruschi, vedi, è tanto tempo che sono morti … che è come se non siano mai vissuti, come se siano sempre stati morti». Così si ragiona, durante la passeggiata tra le tombe di Cerveteri che apre, nell’aprile del 1957, Il giardino dei Finzi-Contini; di là il pensiero del narratore va a un altro popolo, che pure sembra mai esser vissuto e viene evocato per vicende precedenti il conflitto mondiale e la deportazione.

Di etruschi, più di quanto appaia ai lettori di Bassani, si parlò molto in decenni passati, in pagine letterarie importanti (vedi Martina Piperno, L’antichità «crudele». Etruschi e Italici nella letteratura italiana del Novecento, Carocci 2020). Né di etruschi si parlava solo per i paesaggi, le memorie o le tracce archeologiche: a loro si legava un discorso politico, che ebbe particolare visibilità nel ventennio della dittatura. Ripensare a quella stagione dell’etruscologia non è pura rievocazione erudita. Giova invero riflettere su un tema che ha contribuito, a modo suo, al nation building italiano, almeno da quando eruditi toscani e umbri si dilettavano delle «etruscherie» fino alle scoperte successive all’Unità, che indussero Carducci a cantare «gli etruschi discesi co ’l lituo con l’asta con fermi / gli occhi ne l’alto a’ verdi misterïosi clivi» (Fuori alla Certosa di Bologna, in Odi barbare).

Ma fu la scoperta della poi celebre statua di Apollo da Veio (1916) a lanciare il tema verso nuovi orizzonti di studio e di popolarità: venne uno speciale fervore di studi e iniziative, con l’avvio di istituzioni ancora attive, come il fiorentino Istituto di Studi Etruschi (1932), affiancato dalla rivista «Studi Etruschi» (in corso dal 1927). Non solo per questo, la storia dell’etruscologia dopo il 1925 non pare separabile dalla storia dell’intervento fascistico sopra la cultura, e sopra la visione complessiva della storia d’Italia. Le potenzialità politiche del tema sono oggetto di ricerca da qualche tempo, in Francia e in Italia. Una ricca e avveduta analisi ne fornisce ora Andrea Avalli, Il mito della prima Italia L’uso politico degli etruschi tra fascismo e dopoguerra (Viella, pp. 332, € 29,00).

Il passato remoto della penisola è richiamato, almeno dall’età neoclassica, come «archetipo» dell’Italia, comunità immaginata. A livello regionale ma anche nazionale, i popoli italici hanno fornito un paradigma molto produttivo, per temi ideali e per ricerche di storia, linguistica e archeologia, valorizzando ora la loro autonomia, ora invece il loro concorrere all’unità dell’Italia romana. Quanto agli etruschi, oltre i suggestivi culti e riti, oltre il problema della lingua, vi erano temi complessi. Le loro discusse «origini» (immigrati? da Oriente? da Nord? cultura indigena?) entravano nel dibattito sulla natura «etnica» della popolazione italiana: per non farne degli estranei, era necessario farne in ogni modo degli «Italici», e al contempo fare degli Italici, Umbri, Sanniti, Lucani, i primi italiani. Solo così si preservava il modello unitario, rappresentato da Roma, padrona prima del Lazio, poi d’Italia (e pure del mondo? No, non si scherzi).

Ma quale era stato il contributo etrusco al formarsi della civiltà del Lazio antico? Punto delicato fu infatti la «originalità» di quella cultura artistica, così segnata dall’elemento greco. E come spiegare poi il tracollo della civiltà etrusca, scomparsa e assimilata? Simili domande facilmente si traducevano, soprattutto tra le due guerre, in temi politici, dagli approcci di tipo razziale alle questioni «identitarie» non sempre innocenti. Se la Grecia era sorgente della civiltà, come la cultura tedesca aveva con forza sostenuto, quale rango andava riconosciuto all’Etruria? Non ne veniva sminuito il primato di Roma, limitato all’influsso politico-culturale «straniero», ossia etrusco e greco? Nel timore che esso risultasse troppo largo, si ebbe qualche segno di una paradossale «etruscofobia».

Nella discussione erano coinvolti centri diversi (con una sorta di polarità di Firenze e Bologna versus Roma) e alcune personalità maggiori, due delle quali destinate a un ruolo importante nella cultura italiana: il conservatore Massimo Pallottino (1909-1995) e Ranuccio Bianchi Bandinelli (1900-1975), nel dopoguerra postosi a guida dell’archeologia marxista in Italia.

Il libro, ben documentato, segue il tema in successive tappe: dalla scoperta dell’Apollo di Veio, con la fiammata di entusiasmo verso un’arte che appariva originale e moderna nel suo anticlassicismo, allo strutturarsi dell’etruscologia durante il ventennio. Al tempo, oltre ai temi storici o artistici, ebbero un peso anche i differenti razzismi fascisti, quello «mediterraneo», che tendeva a distanziare l’Italia dalla Germania, e quello «ariano», che valorizzava invece la vicinanza con la versione hitleriana. L’affermarsi del «razzismo di Stato» nel 1938 comportò un riassetto degli studi ma anche della divulgazione: i docenti discutevano in libri e convegni, e anche giornali (ma su «La difesa della razza» intervennero figure minori, utili comunque a comprendere un clima). Benedetto Croce, nel ’36, citò anche «le interpretazioni nazionali-italiane della politica degli Etruschi» come esempio di quelle «escogitazioni» che «in realtà, non fanno avanzare d’un sol passo la seria conoscenza storica» (poi in La storia come pensiero e come azione). Di fatto, parlare di etruschi era un modo di pensare l’Italia.

L’influsso fascista sugli studi non si limitò, come pure si è creduto, a conformistici elogi del duce; impossibile quindi eliminarli chirurgicamente per rivelare la tecnica oggettività di quanto resta. È bene dunque prendere sul serio quel che si scrisse. Del male furono parte anche i pensieri pensati, che determinarono (più di quanto si volle ammettere) l’inquadramento di problemi maggiori. Giustamente, il libro considera anche il dopoguerra: dopo il 1945 il tema etrusco perse molto del suo peso ideologico, ma vi fu continuità di pensieri, di persone, di istituzioni. Se Bianchi Bandinelli passò a studi di altro tipo, e di altra motivazione, il prestigio di Pallottino determinò un’egemonia molto durevole (la sua celebre Etruscologia, del 1942, giunse alla settima edizione nel 1984).

La grande stagione dell’etruscologia sembra aver prodotto, guardando agli sviluppi successivi, due Etrurie: una scientifica, con gli scavi, gli studi e le mostre, una pubblica, evocata e immaginaria, ma anche ripensata da artisti figurativi e scrittori, anche stranieri (come negli Etruscan Places di D.H. Lawrence, del 1932). L’etruscomania turistica sta a cavallo tra le due: e certo, tra La chimera di Alice Rohrwacher (2023) e il ritorno nel dibattito pubblico, dopo tanti decenni, di un tema come il «naso etrusco», il mito della prima Italia risulta, oggi ancora, inaspettatamente vitale.

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