Per ragioni del tutto indipendenti dalla volontà di chi scrive, ci siamo dovuti occupare della pubblicazione in dvd della riduzione televisiva di uno spettacolo, Sentite buona gente, promosso e curato da Roberto Leydi per la stagione 1966-1967 del Piccolo Teatro di Milano, con la consulenza di Diego Carpitella, la regia di Alberto Negrin e otto gruppi di esecutori di musiche di tradizione orale provenienti da sei regioni italiane. Le varie fasi del lavoro hanno rivelato, di scoperta in scoperta, come quello fosse un provvisorio punto di arrivo nella carriera di un autore che attraversa da protagonista gran parte della cultura italiana del secondo Novecento, in una debordante ricchezza di relazioni intellettuali – da Elio Vittorini a Paolo Grassi, da Giorgio Strehler a Enzo Paci, da Tullio Kezich a Oreste Del Buono, da Enzo Jannacci a Giorgio Gaber – e in una solidarietà di intenti con Luciano Berio e Umberto Eco, ininterrotta a partire dai primi anni ’50.

Mosso da una molteplicità di interessi, dal jazz ai fumetti, dalle marionette al melodramma, dalla musica elettronica al cabaret, questo singolare percorso intellettuale coincide in gran parte con una stagione irripetibile del giornalismo italiano, quando ad occuparsi di comics e canzoni, cinema e letteratura erano autori come Tommaso Giglio, Giuseppe Trevisani, Mario Soldati e Giorgio Bocca, con i quali Leydi, a lungo inviato de L’Europeo, ebbe allo stesso modo duraturi rapporti di amicizia e di collaborazione. Nomi e relazioni che delineano un capitolo di rilevante importanza nella storia delle idee del nostro paese, nel quale la filosofia – specifico ambito di interesse e lavoro di chi scrive (Ferraro insegna storia della filosofia moderna a Roma-Tor Vergata, ndr) – ha avuto un peso preponderante e nel quale la musica, lungi dall’essere oggetto di trattazioni esasperatamente specialistiche, era parte di un modo di guardare al mondo e di intendere i rapporti tra gli uomini e il senso delle loro elaborazioni culturali. Tra quei testi e quegli autori, in particolare, prendeva corpo una disposizione eclettica che era propria di una generazione, smaniosa di rifarsi dei «digiuni» patiti sotto il fascismo, e di tutto un ambiente culturale dove, in ogni ambito disciplinare, si affermava la stessa tendenza verso incroci e innesti, con riferimento particolare alle grandi correnti della cultura europea e statunitense, in reazione a un’asfissiante autarchia che, prima ancora di essere praticata dal regime, era stata teorizzata dalle filosofie idealistiche.

Tutte le esperienze alle quali rimandano quei nomi si collocano in qualche modo sul terreno di un «illuminismo padano», proprio di un ceto intellettuale che guardava con fastidio, prima, e ostilità, poi, alle tendenze e agli orientamenti affermatisi nel frattempo a Roma, all’interno del principale partito della sinistra italiana, in una distanza di gran lunga superiore a quella geografica. Un continuo travalicare confini e steccati, dettato dal rifiuto di logore ripartizioni di ambiti e da insofferenza verso poetiche e ideologie di larga circolazione, che in Leydi attestava anche un divario rispetto alla temperie culturale che aveva contrassegnato l’avvio delle ricerche sulle musiche di tradizione orale nella parte meridionale del nostro paese. Di testo in testo, è andato così definendosi un orizzonte sorprendentemente più vasto di quello entro il quale è di solito «costretta» la sua vicenda intellettuale, dove si attribuisce un’importanza eccessiva ad altre relazioni, come quelle con De Martino e Carpitella, più «eccentriche» rispetto al fulcro dei suoi interessi, o al sodalizio stretto con Gianni Bosio attorno alle attività del Nuovo Canzoniere Italiano, durato poco più di tre anni, dal giugno 1962 al marzo 1966.

Da qui anche la necessità di rivedere la suggestiva quanto vaga convenzione storiografica attorno ai due padri della moderna etnomusicologia – Carpitella e Leydi – nella quale si disperde la specificità dei loro rispettivi percorsi di studio e di vita oltre che le ragioni profonde di un divergente interesse riguardo alle musiche di tradizione orale, con visioni complessive separate da distanze difficili a colmarsi. Torniamo ora agli allegati presenti nel libro («Roberto Leydi e il ’Sentite buona gente’ – Musiche e cultura nel secondo dopoguerra, Squilibri pp. 548, euro 32. Il libro di Domenico Ferraro oltre a tratteggiare un inedito profilo di Leydi e del suo lavoro omaggia gli artisti coinvolti nello spettacolo, ndr). Nel dvd è presente la riduzione televisiva dello spettacolo (al Lirico di Milano tra il febbraio e il marzo del 1967), realizzata da Lino Procacci per la Rai di Milano ma mai trasmessa sugli schermi televisivi; nel cd una selezione dei brani raccolti da Carpitella, Leydi e Negrin nelle rilevazioni sul campo, in Abruzzo, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Piemonte, Puglia, Sardegna e Toscana, ci restituisce all’ascolto una strepitosa antologia sul canto popolare italiano a metà degli anni ’60. La «prima rappresentazione di canti, balli e spettacoli popolari», affidata interamente alla viva voce dei protagonisti di una tradizione misconosciuta o negata dalla cultura ufficiale, si realizzava all’interno della programmazione di una delle più prestigiose istituzioni nazionali, nel ventennale della sua fondazione, grazie all’incontro tra due intellettuali accomunati dalla convinzione che dal mondo popolare potessero derivare indicazioni, suggestioni e temi utili a un rinnovamento del teatro. Oltre che in una consuetudine di rapporti avviata già sul finire degli anni ’40, l’intesa tra Roberto Leydi e Paolo Grassi si fondava, infatti, sulla convinzione, propria di tutta una generazione, che lo «spettacolo» costituisse l’espressione più compiuta di una «nuova cultura» che, in una dimensione pubblica piuttosto che nel chiuso di una pagina, doveva manifestarsi come lievito e agente di cambiamento. Cresciuto alla scuola di un eccezionale promotore culturale come Ferdinando Ballo, Leydi considererà sempre spettacoli e concerti come «azioni pubbliche» che, destinate a scuotere le coscienze, tanto più efficacemente potevano raggiungere i loro obiettivi quanto più coerentemente si risolvevano «nell’arbitrio del fatto teatrale», secondo le forme proprie di un genere che non aveva bisogno né di interessate tutele né di strumentali giustificazioni, quasi che dovesse nobilitarsi facendosi veicolo di diffusione di determinati contenuti, mutuati magari da ambiti ritenuti più convenienti al decoro di uno studioso. Convinzioni precocemente maturate da Leydi, all’interno di una riflessione sul «teatro di musica» avviata già nel 1950 e proseguita ininterrottamente, fino e oltre il Sentite buona gente, anche nella frequentazione quotidiana di registi e compositori, allo stesso modo inclini a ravvisare nell’originalità di una forma e di un linguaggio il valore e l’importanza di ogni cimento artistico: le stesse convinzioni che, condensate attorno alla controversa questione dello «specifico stilistico», si ritrovano alla base di una proposta così inusuale, nella tradizione teatrale nazionale, come il Sentite buona gente, attorno alla quale Leydi non avrà difficoltà a intendersi con un uomo di spettacolo come Alberto Negrin in merito alla centralità di alcuni «fatti scenici» e di specifici «mezzi teatrali», trovando nuove conferme alle ragioni della sua più duratura collaborazione con il regista Filippo Crivelli.

Concepito in polemica con Gianni Bosio e il Nuovo Canzoniere Italiano, dal quale si era appena distaccato, lo spettacolo si contrapponeva al Ci ragiono e canto di Dario Fo in quanto voleva testimoniare «la presenza attiva della cultura popolare nel mondo moderno» senza gravami ideologici né tutele o mediazioni da parte di interpreti borghesi. Esibendosi con una straordinaria maestria e una disinvoltura insospettabile in pastori e contadini, quegli esecutori non delusero le attese. I musici terapeuti del Salento, le sorelle Bettinelli di Ripalta Cremasca, i cantori di Carpino, la Compagnia Sacco di Ceriana, i suonatori di Maracalagonis, gli spadonari di Venaus, i musicisti e danzatori di San Giorgio di Resia e i tenores di Orgosolo, con Peppino Marotto alla sua prima esibizione su un palco, offrirono infatti una dimostrazione, meravigliosamente dinamica, dell’esistenza di una tradizione musicale con propri registri espressivi e specifiche modalità esecutive diversi da quelli della musica colta e irriproducibili al di fuori dei contesti nei quali si erano originati.

Con le loro esibizioni, in particolare, quei cantori e musicisti diedero una nitida e inequivocabile conferma delle ragioni invocate dagli autori a favore della loro impresa: la capacità dei depositari della tradizione orale di rappresentare in proprio i loro saperi musicali e l’importanza di alcune forme dell’espressività popolare al di là di ogni loro «avvilente uso pratico».

In questa direzione il Sentite buona gente assume un valore per molti versi paradigmatico riguardo alle ricorrenti discussioni sulla legittimità di portare «fuori contesto» esecutori di musiche tradizionali o anche sul possibile riuso dei repertori popolari, cristallizzatesi attorno ad argomenti che si ripropongono inalterati, di generazione in generazione, in una inossidabile coazione a ripetersi. Abitudini e comportamenti, invocati oggi come indizi e riprove di una modernità malata e corruttrice, contrassegnavano già l’agire di quei musici e cantori ospitati al Lirico di Milano, ritenuti tuttavia depositari di un’autenticità che, per Leydi, era funzionale a seducenti quanto fragili miti di fondazione, dagli esiti quanto mai problematici.
Il rimando a un ipotetico momento in cui intere comunità si sarebbero strette nella condivisione di determinati patrimoni secondo modalità di formazione e trasmissione proprie di una cultura orale, rischia infatti di velare lo sguardo rivolto al presente, in cui ancora si davano, e continuano a darsi, attorno ai repertori popolari, fenomeni rilevanti che, per quanto diversi da quelli propri di società rurali e contadine nell’Italia degli anni Cinquanta, sembrano irriducibili alle forme espressive della musica colta.
Portato in scena alla vigilia del ’68, quello spettacolo allo stesso tempo ha un valore emblematico rispetto a dinamiche e processi nei quali la «realtà effettiva» del mondo popolare sarebbe stata riassorbita nelle intenzioni militanti di un «teatro politico» e di una «canzone di lotta e di protesta», la cui genesi va rintracciata proprio nell’alleanza stretta da Dario Fo con il Nuovo Canzoniere Italiano attorno alla prima edizione del Ci ragiono e canto.

Negli anni a venire, segnati da grandi entusiasmi collettivi oltre che da torride passioni ideologiche, alla musica popolare arrise una straordinaria fortuna, attestata eloquentemente dal moltiplicarsi di «canzonieri» che, organizzati su basi prevalentemente territoriali, domineranno la scena alternativa italiana per buona parte degli anni Settanta, secondo un modello di intervento forgiato da Leydi nel corso della sua militanza nei ranghi del Nuovo Canzoniere Italiano. Una fortuna equivoca, però, che portava in sé le ragioni del suo rapido declino in quanto i soverchianti significati politici avrebbero offuscato ogni riferimento alle forme dell’espressività popolare. L’incontestabile verità di quanto dichiarato da un protagonista di quegli anni, che con comprensibile orgoglio ha sottolineato come nel ’68 non ci fosse altra musica che la «nostra», andrebbe pertanto integrata con la precisazione che gli «operai e gli studenti» che in corteo cantavano Contessa o Cara moglie lo facevano senza nemmeno sospettare un qualche vago legame con una tradizione di canto popolare, tanto quelle «canzoni di lotta» si erano ormai distaccate dalla «matrice» dalla quale si riteneva dovessero derivare nell’impegno ad «attualizzare» i repertori tradizionali. Investita di improbabili disegni egemonici, l’appassionata riscoperta della musica popolare non sarebbe così sopravvissuta al tramonto delle fervide speranze di un cambiamento radicale della società italiana, a dimostrazione di quanto fosse stato strumentale quell’interesse, subordinato ad altri fini più che rivolto alla scoperta di un mondo e di una «civiltà che ignoriamo, anche se convive con noi e costituisce la fonte della nostra coscienza civile e culturale», come si leggeva nel programma di sala del Sentite buona gente.
A questa memorabile esperienza di studio e di spettacolo, che costituisce la prima e credo anche la più rilevante occasione di collaborazione tra i due padri della moderna etnomusicologia italiana, è dedicata ora una mostra che, in programma all’Auditorium Parco della Musica di Roma fino al 16 maggio, ne ricostruisce le diverse fasi di realizzazione, dalle rilevazioni sul campo fino alla sua messa in scena, in un efficace intreccio di suoni e immagini.

Alle fotografie di Luigi Ciminaghi e di Alberto Negrin si accompagnano, infatti, le conversazioni con gli interpreti, che illustrano peculiarità, contesti ed occasioni dei loro canti e balli, mentre gli autori spiegano, in video o in voce, il senso di questa loro esperienza: per tutta la durata della mostra sarà possibile vedere anche l’inedita riduzione televisiva dello spettacolo. Inoltre lunedì (20 aprile), alle ore 18,30, al Teatro Anfitrione di Roma si terrà la prima proiezione pubblica, su grande schermo, dello spettacolo. Lo spazio della mostra prevede anche appuntamenti con testimoni e protagonisti di quegli anni e del Sentite buona gente. All’incontro con il gruppo di Maracalagonis, che al suono di launeddas il 16 aprile ha inaugurato la mostra, seguirà il 7 maggio quello con i tenores di Orgosolo e, il 16 maggio, quello con suonatori e danzatori della Val Resia, legati tutti da rapporti di discendenza e, a volte, anche di parentela con i protagonisti di quello spettacolo del 1967. A conferma di come «certe» musiche continuano ad avere un senso e un’importanza in alcune comunità che ancora vi ravvisano un veicolo di fondamentale importanza per l’affermazione della propria identità culturale.