L’agricoltura tradizionale di sussistenza e la genomica, insieme per affrontare le sfide del futuro: garantire sicurezza alimentare e contrastare gli effetti dei cambiamenti climatici. La strana alleanza parte dall’Etiopia per dimostrare che contadini e ricercatori possono lavorare insieme.

Quella firmata dalla Scuola Sant’Anna di Pisa e da 60 contadini delle comunità etiopi di Melfa e Workaye è la prima ricerca di questo tipo – ha vinto il «Bologna award 2017», premio per la produzione agroalimentare sostenibile, un riconoscimento del CAAB (Centro Agroalimentare di Bologna) e Fondazione FICO.

Il successo è merito dell’intuizione di Matteo Dell’Acqua, genetista della Sant’Anna e coordinatore scientifico del progetto, che ha incrociato la più avanzata ricerca genomica alla conoscenza diretta delle comunità rurali. Il dialogo si è rivelato molto fruttuoso: i contadini etiopi, una sessantina, hanno sistematicamente valutato le caratteristiche di 400 diverse qualità di grano, individuando quelle ritenute più utili. I ricercatori hanno impiegato questi dati (190mila informazioni raccolte in settimane di lavoro nei campi) per incrociarli con quelli derivati dal sequenziamento del Dna dei semi, identificando così i fattori genetici del grano ideale.

«Più che individuare il grano perfetto, l’obiettivo era di trovare il migliore seme possibile: abbiamo identificato una serie di geni che possono contribuire a creare qualità di grani resistenti, adatti ai diversi climi etiopi», spiega Dell’Acqua, che è stato ospite del Festival dei Diritti Umani di Milano, in un incontro in cui la riscoperta delle tradizioni contadine è stata presentata come la base di partenza per garantire un’agricoltura sostenibile.

L’innovazione del metodo di ricerca sta nel rovesciamento del punto di osservazione: non più l’analisi del seme in laboratorio, ma la sua resa nella coltivazione, sulla base dell’esperienza diretta. «Non abbiamo preso noi le misurazioni delle piante, ma abbiamo chiesto ai contadini quali fossero le caratteristiche più importanti per loro», spiega Dell’Acqua. Il passaggio dal produrre un grano «con una spiga più grande» al produrre quello «con una spiga della grandezza ideale per il contadino» è decisivo: gli agricoltori non sono più soggetti passivi, obbligati a ricevere una tecnologia sviluppata lontano dai campi, ma sono «artefici dello sviluppo varietale di frumento». Questa è anche una garanzia per il successo della ricerca: se la pianta risponde alle esigenze dei coltivatori e del terreno, sarà più facilmente impiegata, resisterà di più, porterà più frutto, con conseguenze positive sia sull’alimentazione che sull’economia delle comunità locali.

Anche per questo coinvolgimento diretto, la ricerca ha considerato i contadini co-autori delle pubblicazioni scientifiche scaturite dal progetto. Chi sono questi agricoltori? «Uomini che vivono in condizioni semplici, in capanne di fango, ma con profonda dignità. Donne, sole o vedove ormai capi famiglia» racconta Dell’Acqua. «Penso che sia la prima volta che dei contadini firmano ricerche che sono state pubblicate anche da riviste scientifiche».

L’Etiopia non è stata scelta a caso: dal 2015 sta affrontando una serie di siccità che hanno messo in ginocchio agricoltura ed allevamento di intere regioni, causando un’altissima malnutrizione. L’agricoltura etiope rappresenta però anche una diversità di sementi straordinaria, alcune delle quali uniche al mondo.

«Abbiamo dimostrato che le conoscenze contadine sono fondamentali per resistere ed adattarsi meglio ai cambiamenti climatici. Questo vale per l’Etiopia, ma il principio su cui si basa la ricerca è valido per tutti i contesti agricoli» conclude Dell’Acqua. «Questo ci spinge a ripensare l’agricoltura: possiamo ridurre pesticidi, affrontare cambiamenti climatici e l’aumento della popolazione del mondo». La ricerca non si ferma qui: il prossimo obiettivo sono le coltivazioni di mais in Nepal e in Bhutan.