Dopo due anni intensi di guerra, fame, carestia, ospedali, scuole distrutte, migliaia di sfollati e un numero indefinito di morti, la pace promessa tra il governo etiope e i ribelli del Tigray (Tigrayan People’s Liberation Front) è stata firmata mercoledì a Pretoria in Sudafrica. In una sola settimana di colloqui è stato raggiunto l’accordo con il quale entrambe le parti accettano la «cessazione permanente delle ostilità».

MEDIATORE del processo l’ex presidente nigeriano Olusegun Obasanjo delegato dell’Unione africana per porre fine al conflitto. Obasanjo ha spiegato che i contendenti «hanno formalmente concordato la cessazione delle ostilità e un disarmo sistematico, ordinato, regolare e coordinato. L’accordo prevede il ripristino dell’ordine pubblico, dei servizi, l’accesso senza ostacoli alle forniture umanitarie e la protezione dei civili». Si tratta di «un programma dettagliato di disarmo» e «ripristino dell’ordine costituzionale» nel Tigray, con entrambe le parti che accettano di «fermare ogni forma di conflitto e propaganda ostile».

IL PRIMO MINISTRO etiope Abiy Ahmed ha espresso gratitudine a Obasanjo e tutti i mediatori per la conclusione dei colloqui di pace, sostenendo che «il nostro impegno per la pace rimane fermo. E il nostro impegno a collaborare per l’attuazione dell’accordo è altrettanto forte».
Getachew Reda, portavoce delle autorità del Tigray, si è soffermato sull’importanza che entrambe le parti onorino i loro impegni. Mettendo in guardia sugli «spoiler» che potrebbero tentare di «sabotare» l’accordo di pace. L’accordo si basa su 11 obiettivi: in sintesi, creare un ambiente favorevole per una pace sostenibile, ripristinare l’ordine costituzionale e rifiutare la violenza come metodo per risolvere le divergenze politiche. Nel dettaglio si specifica che per la cessazione permanente delle ostilità è necessario rispettare la sovranità, l’integrità territoriale e l’unità della Repubblica etiope; la legalità e il rispetto delle norme e dei principi sanciti dalla Costituzione federale; il rispetto dei diritti umani fondamentali; la protezione dei civili; le elezioni e il governo; l’accesso umanitario senza ostacoli.
Per il segretario generale delle Nazioni unite Antonio Guterres l’accordo è un primo passo importante. Anche secondo Alan Boswell, dell’International Crisis Group, «si tratta di un enorme passo avanti che ha comportato importanti concessioni da entrambe le parti, anche se le parti hanno lasciato i dettagli più spinosi ai futuri colloqui di pace».

AI COLLOQUI non hanno partecipato né gli eserciti federali che hanno preso p arte al conflitto, in particolare Amhara e Afar, né l’Eritrea.
«Il processo di pace – continua Boswell – sarà molto accidentato, lungo e difficile»: due anni di guerra non si risolvono in pochi giorni tanto più che le tensioni tra il Tplf e Abiy Ahmed risalgono già al 2018 quando è diventato primo ministro. Le sue scelte in merito alla pace con l’Eritrea e l’estromissione della classe dirigente del Tplf che aveva governato l’Etiopia negli ultimi 27 hanno causato una serie di tensioni sfociate nella decisione del governo del Tigray di indire elezioni, che il governo etiope aveva posticipato per via del Covid, creando i presupposti per il conflitto scoppiato il 4 novembre 2020. Sono stati due anni in cui più volte gli analisti hanno temuto che l’Etiopia potesse implodere: le tensioni con l’Egitto per la Grande diga della Rinascita, con il Sudan per la zona contesa di Al Fashaga e poi i ribelli Oromo dell’Ola, oltre alla siccità, la crisi economica innescata dalla guerra tra Ucraina e Russia con l’inflazione sui beni di prima necessità oltre la soglia del 40%, la guerra con i ribelli del Tigray e il bilancio dello Stato consumato dall’acquisto di armi sembravano veramente troppo per essere gestiti da un solo Paese. Due anni vissuti pericolosamente, ma ora la gente per le strade di Addis Abeba si gode la pace, è contenta, anche se cauta.