L’operazione di ripristino dell’ordine nella regione del Tigray avviata lo scorso 4 novembre è diventata guerra regionale e poi si è allargata a macchia d’olio verso le regioni limitrofe dell’Amhara e dell’Afar e negli ultimi giorni sembra dirigersi verso la stessa capitale etiope Addis Abeba, dopo che l’esercito tigrino avrebbe preso il controllo della città di Dessié lungo l’autostrada che va verso la capitale.

TUTTAVIA, IL GOVERNO CENTRALE, attraverso il suo portavoce Legesse Tulu, ha negato il ritiro dell’esercito dalla città sostenendo che si tratta di «propaganda prefabbricata». Il primo ministro etiope Abiy Ahmed ha inviato il popolo «a sospendere le attività per marciare con ogni arma per seppellire i terroristi del Tplf (Fronte di liberazione del popolo del Tigray, ndr) venuti per distruggere il Paese».

La dichiarazione del primo ministro Abiy è stata rilasciata poco dopo che il consiglio della regione Amhara ha emesso una risoluzione in nove punti nella quale oltre alla sospensione delle attività istituzionali e al coprifuoco si invitano i cittadini a mettere a disposizione veicoli privati e armi da destinare alla «campagna di sopravvivenza» della regione contro la minaccia posta dal Tplf.

IL GOVERNO ETIOPE ha accusato i ribelli del Tigray di aver ucciso 100 giovani nella città di Kombolcha. Ma il portavoce Getachew Reda ha dichiarato alla Reuters che «non c’è stata resistenza a Kombolcha» quindi non ci sarebbero stati combattimenti, né morti. Non è possibile verificare le dichiarazioni in modo indipendente perché le comunicazioni nell’area sono interrotte e i giornalisti sono bloccati. In una nota dell’Ufficio delle Nazioni unite per gli affari umanitari (Ocha) si sostiene che i combattimenti stanno provocando sfollamenti su larga scala a Dessie e Kombolcha e nelle aree limitrofe, dove era già presente un gran numero di sfollati interni arrivati dalle vicine Habru e Kutaber Woredas: «C’è urgente bisogno di cibo, alloggi di emergenza, acqua potabile, medicinali e servizi sanitari».

LE FORZE DEL TIGRAY hanno affermato che continueranno a combattere fino a quando le forze di Amhara non lasceranno il Tigray occidentale (che in passato faceva parte della regione Amhara) e finché il governo non consentirà la libera circolazione degli aiuti nel resto del Tigray.

Nelle settimane precedenti di ottobre l’esercito etiope aveva bombardato a più riprese la capitale del Tigray Mekelle (almeno 8 attacchi aerei tra l’11 e il 28 ottobre). L’espansione e il protrarsi del conflitto preoccupa le diplomazie internazionali, in particolare, il segretario di Stato americano Anthony Blinken è intervenuto dichiarando che «i continui combattimenti prolungano la terribile crisi umanitaria nel nord dell’Etiopia, tutte le parti devono interrompere le operazioni militari e avviare negoziati per un cessate il fuoco senza precondizioni», ha affermato Blinken. Tuttavia, il generale Tsadkan Gebretensae (68 anni era nel 1991 uno dei giovani capi del Tplf che ha guidato la lotta contro Menghistu e l’offensiva finale su Addis Abeba) ha escluso l’ipotesi di negoziare con il governo etiope, sostenendo che il conflitto sarebbe ormai vicino alla sua conclusione: «Non c’è niente che possa essere risolto attraverso i negoziati – ha dichiarato su Tigray Tv -, la guerra sta per finire».

PIÙ A SUD, sempre lungo l’autostrada A2 il movimento ribelle Ola (Oromo Liberation Army) che lo scorso agosto aveva annunciato un’alleanza strategica con il Tplf per combattere «lo stesso nemico» ha attaccato e avrebbe preso il controllo delle città di Kemise (325 km da Addis Abeba) e di Senbete (262 Km dalla capitale). L’obiettivo non sarebbe un’avanzata verso la capitale (a sud), ma i ribelli puterebbero ad est (verso la regione Afar) per tagliare i collegamenti tra Addis Abeba e Djibuti e sbloccare i collegamenti verso il Tigray.

Il governo etiope in questi mesi ha acquistato armamenti da Cina, Turchia, Emirati e Iran, ha avuto la supremazia aerea, ma a terra la strategia del Tplf sembra prevalere, i tigrini non solo resistono, ma avanzano e ci si chiede con quali armi? È quello che sta facendo impazzire gli strateghi etiopi. Mentre risuonano ancora parole – dulce et decorum est pro patria mori – che si credevano passate.