Étienne Balibar interverrà a «La conferenza di Roma sul comunismo», il giorno 21 gennaio (ore 16, Esc Atelier Autogestito) su «Poteri comunisti». Essendo tra i filosofi marxisti più noti e autorevoli del dibattito europeo contemporaneo relativo ai temi della cittadinanza e della democrazia, abbiamo deciso di intervistarlo al fine di anticipare alcune delle questioni più salienti che verranno affrontate durante la conferenza romana.
La rappresentazione che Marx aveva del comunismo era di alternativa al capitalismo, il quale d’altronde ne preparava già le condizioni. Su questo snodo si è aperta la grande questione attorno alla nozione di transizione.

Lei ha osservato in «La filosofia di Marx» che la «transizione» è invece «una figura politica della “non contemporaneità” del tempo storico a sé, ma che rimane iscritta nel provvisorio». Non è in questo antievoluzionismo e nel suo rinvio all’imprevisto del comunismo?
L’idea di comunismo ereditata da Marx ha una storia lunga, che attraversa tutta la modernità ed è legata a doppio filo con eresie religiose e rivolte sociali. Marx stesso aveva inizialmente praticato con convinzione le utopie associative romantiche, che rispondevano alla rivoluzione industriale con progetti di riorganizzazione della società ispirati a principi di uguaglianza e razionalità, dove il denaro era abolito. Poi, pensò che si potesse dare fondamento scientifico alla speranza comunista, iscrivendola nella linea dell’evoluzione storica come il «modo di produzione» dell’avvenire, che avrebbe condotto una società fatta di classi verso la società senza classi.Nella formula che lei cita, ho provato a cercare in Marx degli elementi (e ce ne sono) che contestino questa forma di evoluzionismo fondamentale, con l’intento di restituire alla politica quella dimensione di incertezza e di creatività che le è propria e volendo concepire l’alternativa come un bivio più che come un punto di arrivo. Ho cercato in questo modo di avvicinare Marx alle prospettive rivoluzionarie attuali, che vanno al di là del fallimento catastrofico di quel «comunismo evoluzionista» incarnato dalle esperienze socialiste del XX secolo.

«Cambiare il mondo» per «trasformare noi stessi», è una delle idee forza in Marx….
Sono d’accordo a presentare le cose in questo modo, a condizione però di fare due precisazioni. La prima è che Marx non ha mai messo unilateralmente l’accento sul tema del «comune» e della «comunità» a scapito dell’individualità. È proprio questo che lo distingue dai romantici e dai nostalgici delle società precapitalistiche, in cui l’individuo era soggetto alla totalità.
L’uso alienante che il capitalismo fa dell’individualismo (peraltro oggi aggravato ulteriormente dal discorso neoliberista e dalla sua estremizzazione del modello della concorrenza universale tra gli individui) conduce inevitabilmente a valorizzare il «comune». Marx cerca una formula esistenziale per cui – come dice il Manifesto comunista – lo sviluppo di ognuno è condizione della comunità e vice versa. La seconda precisazione è che intendo attribuire un senso forte all’espressione «desiderio comunista». Il desiderio comunista è il motore dell’impegno comunista. È un desiderio in un certo senso irrealizzabile, perché infinito, ma è possibile concepirlo in modo «materialista», non tanto sottoponendolo a condizioni, ma introducendo al suo interno il desiderio delle proprie condizioni, riassunto in forma allegorica dall’espressione «trasformare il mondo». Questo distingue il desiderio comunista dal desiderio cristiano, da un lato, che aspira all’«uomo nuovo» investito dalla grazia, e, dall’altro lato, da quel desiderio nietzschiano ben riassunto da Foucault nella formula della «cura di sé».

Le immagini del comunismo sono molte, tra esse Althusser scelse quella presente nell’«Ideologia tedesca»: il comunismo come «il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente». È anche la sua immagine?
Torniamo al problema di poco fa: questa formula magnifica è soggetta al rischio di essere interpretata in modo evoluzionistico, per cui il comunismo sarebbe il senso ultimo della storia. Per fortuna la frase è equivoca. Con essa si sgombera il campo da un’interpretazione del comunismo come idea regolativa, e si afferma l’«immanenza» del comunismo alle lotte del presente e alle trasformazioni che queste ultime producono nella società e nei suoi attori.

Nel contesto attuale, di attacco feroce alla democrazia, ne è possibile una ri-significazione a partire da conflitti agiti in nome di rinnovate istanze di «égaliberté»? È l’insurrezione a essere nuovamente la modalità attiva della cittadinanza?
Quello che mi sembra importante nella proposizione dell’égaliberté è il fatto che si tratta di un’idea borghese (o «civico-borghese»), che ha però al suo interno un’imprescindibile dimensione rivoluzionaria, insurrezionale, eccedente (o «iperbolica»). Ecco perché l’égaliberté torna in primo piano ogni volta che forme di resistenza e invenzioni emancipatrici entrano in conflitto con modalità istituzionali fondate sulla dominazione di classe (o, più in generale, su una gerarchizzazione sociale). Ma il rapporto genealogico e dialettico tra l’idea borghese di insurrezione e le forme della politica comunista non è semplice. Detto questo, le circostanze comportano a volte semplificazioni strategiche: la «postdemocrazia» che si sta sviluppando oggi sotto il nome di governance è talmente antitetica rispetto a qualunque idea di cittadinanza attiva che già iscrivendo la politica sotto il segno di questa tradizione borghese si ottiene un effetto sovversivo insopportabile per l’ordine costituito. Ma non penso che questo sia sufficiente, perché l’égaliberté parla di diritti e di capacità, individuali o collettivi, e questo non basta a determinare ciò che prima abbiamo definito «desiderio comunista».

Politicamente, dove si indirizza lo «sforzo», nel senso del conatus spinoziano, dei comunisti?
Beh, ecco che entriamo nel vivo delle più interessanti convergenze e divergenze tra i vari teorici del «postmarxismo» contemporaneo. Tutti si rifanno a Spinoza, ma non tutti lo leggono allo stesso modo. Per parte mia, non vedo difficoltà a interpretare il conatus nel senso di una «attualizzazione della potenza nella storia» senza una fine predeterminata. Sarei anche tentato di parafrasare una celebre formula di Derrida dicendo che abbiamo a che fare con un «profetismo senza profezia», o senza altra profezia che quella data dal proprio «sforzo», dall’incremento della propria potenza di agire e della propria autonomia.

Il riferimento a Spinoza è utile anche perché spiega molto bene che i movimenti di massa hanno bisogno di una profezia carica di immaginario, quindi più ambivalente. Non esiste politica senza immaginario di massa.
Le divergenze più forti sorgono sul tema dell’organizzazione. Io ho affermato che il conatus spinoziano è «transindividuale», Negri ha detto che il suo soggetto è la «moltitudine». Io ne ho tratto la conclusione che in Spinoza la politica è sempre organizzata, ha bisogno di mediazioni istituzionali; mentre per Negri essa deve mantenere un che di «selvaggio», nel quadro di un’opposizione radicale tra autonomia e organizzazione. Si tratta di una divergenza politica, ma anche profondamente metafisica. Ma ciò non ci impedisce di fare tante cose assieme…

L’orizzonte di un «diritto alla differenza nell’uguaglianza» ha come obiettivo un’uguaglianza che neutralizza le differenze, bensì «la condizione e l’esigenza della diversificazione delle libertà», come lei ha scritto. Il comunismo come può «stare» a questa riflessione?
È proprio su questo tema che si potrà pensare una transizione da una concezione «rivoluzionaria borghese» dell’uguaglianza a una concezione «comunista». Si deve precisamente passare dall’altro lato dell’equazione, ossia a una concezione della libertà che sovradetermina l’uguaglianza. La libertà borghese è universale, quindi universalizzabile, ma non è veramente differenziale. Cioè la rivolta che produce è all’insegna del diritto comune degli esseri umani a non essere discriminati per le loro differenze antropologiche. Ma questa libertà borghese si astiene dal fare positivamente di queste differenze e del loro libero gioco il contenuto e, per così dire, la tessitura ontologica dell’uguaglianza. Includere l’affermazione delle differenze all’interno dell’idea di comunismo non è un gesto filologico ma performativo: una forzatura del significato tradizionale di comunismo che tende ad adattarlo alla nostra concezione dell’universalismo.