La discussione pubblica e il dibattito parlamentare sulle unioni civili sono sovrastati e deformati da quello che chiamerei un Conflitto Simulato che opporrebbe due schieramenti totalmente fittizi.

L’uno è quello di coloro che si propongono come titolari esclusivi di valori forti, di una robusta concezione morale e di principi non rinunciabili e non negoziabili; l’altro è lo schieramento di quanti, al più, tutelerebbero interessi circoscritti e parziali, propri di una minoranza, o, comunque, di una sommatoria di minoranze.

In altri termini, una controversia tra una concezione ad alta intensità valoriale e una tutta concentrata sull’acquisizione di diritti. Da una parte, di conseguenza, l’etica, dall’altra il desiderio. Per un verso, una lettura ispirata da considerazioni morali e, per altro verso, una dettata da una visione edonistica, consumistica e, alla resa dei conti, egoistica.

In questo schema, naturale e morale sono categorie che si alimenterebbero a vicenda, indifferenti alle enormi trasformazioni che hanno conosciuto le società umane e, al loro interno, le forme di vita e le concezioni dei rapporti tra i sessi, tra le generazioni e tra genitori e figli. Il che spiega anche il reiterato ricorso al concetto di «antropologia». Quando una personalità autorevole come il presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, afferma che «la famiglia è un fatto antropologico, non ideologico», si avverte la sensazione che si tratti in realtà di una semplice interpretazione culturale, motivata da preoccupazioni di ordine generale, che esulano dal tema trattato. E che ha come esito la trasformazione della stessa categoria di antropologia e del suo paradigma scientifico, in una sorta di sistema chiuso, connotato da rigidità e incapace di registrare le trasformazioni avvenute e quelle in atto, e destinato, a sua volta, a farsi dispositivo ideologico.

D’altra parte, il risultato di quel Conflitto Simulato può essere rovinoso. Intanto perché toglie alla mobilitazione per l’affermazione dei diritti la sua ispirazione più profonda e la sua base più solida, quella che si affida in ogni caso a principi morali e a valori condivisi: ancorché differenti da quelli, di origine religiosa, nei quali si riconosceva, fino a qualche decennio fa, la maggioranza della società nazionale. E, infatti, come non vedere che, a ispirare la richiesta di riconoscimento dell’unione civile è – può essere – un’istanza morale? Cos’altro è, se non questo, quella ricerca di reciprocità, mutualità, affidamento, vicendevole supporto, stabilità, continuità nel tempo e, ancora, coniugalità e genitorialità? Non costituisce, tutto ciò, il fondamento morale di una relazione e un fattore capace di contribuire al rafforzamento della coesione sociale? Se così non intendessimo, finiremmo col ridurre la morale a una sorta di lettura rinsecchita e rattrappita della precettistica autoritaria più convenzionale.

Quanto detto finora subisce, proprio in queste ore, una offensiva assai insidiosa, che si traduce nell’ipotesi di amputare il disegno di legge Cirinnà di una sua parte significativa, stralciando il capitolo sulle adozioni. Dietro una simile ipotesi si può scorgere un approccio che definirei economicistico. Una sorta di neutralizzazione del contenuto morale del rapporto di coppia omosessuale e una sua riduzione a mero contratto privato. Un’impostazione che prevede esclusivamente la concessione – il termine è appropriato – delle garanzie materiali e sociali. Ovvero quelle previdenziali, patrimoniali, ereditarie, assicurative e fiscali: diritti primari legittimi, addirittura sacrosanti, che vanno tutelati, ma che non esauriscono certo l’intera e complessa dimensione della soggettività. E che, soprattutto, tradiscono un’idea gravemente riduttiva della identità dell’omosessuale. Egli non viene visto, in quella concezione economicistica, come un cittadino intero e come una persona intera, titolare di una dignità piena, senza deroghe e senza eccezioni. Al contrario, viene considerato come una persona parziale e dimidiata. In altre parole, è come se a quel quasi-cittadino si proponesse uno scambio: diritti materiali e garanzie sociali in cambio della rinuncia al pieno riconoscimento giuridico-morale: e a quei requisiti che costituiscono il tratto saliente della irripetibile personalità umana e della sua unicità. Ovvero il diritto al sentimento e all’affettività, alla pienezza emotiva e alla sessualità, alla condizione di coniuge e di genitore: e all’aspirazione a quel pezzo di felicità condivisa, per quanto precaria e gracile, che ci è consentita in questo nostro mondo.

Da tutto ciò discende che, quello delle unioni civili, è certamente un tema di notevole e delicata rilevanza, che richiama dilemmi etici e visioni del mondo: ma è, in primo luogo, una grande questione di uguaglianza e di pari dignità. E quella che può apparire come una problematica di pochi – decisamente minoritaria sotto il profilo statistico – si rivela, infine, come un’importante questione di libertà di tutti. Siamo in presenza, cioè, di una classica controversia sul diritto ad avere diritti. Ovvero sul fondamento stesso dell’idea di democrazia.