I terroristi italiani e in particolare le Br, furono eterodiretti dalle forze nazionali e internazionali che intendevano bloccare il processo politico innescato da Moro e Berlinguer alla fine degli anni ’70?

La domanda è tornata in occasione della presentazione a Roma di un libro che rievoca quegli anni attraverso una serie di testimonianze (Gli anni di piombo. Il terrorismo tra Genova, Milano e Torino 1970-1980, edito da De Ferrari e a cura di Roberto Speciale).

Il parlamentare del Pd Gero Grassi, impegnato nella costituzione di una terza commissione d’inchiesta sul caso Moro – che però stenta a formarsi per mancanza di candidati a comporla – si dice certo di questa eterodirezione. Ci sarebbe qui una verità storica da accertare, capace di riempire i buchi, spesso vistosi, lasciati dai procedimenti giudiziari sul rapimento e l’uccisione del leader democristiano nel ’78.

Emanuele Macaluso preferisce sottolineare la convergenza di obiettivi politici tra l’autonoma forza eversiva dei brigatisti e altri soggetti politici che, dalla Russia di Breznev al Dipartimento di Stato Usa, passando per altre centrali occidentali, avversavano l’avvicinamento del Pci al governo.

In quegli anni ero a Genova, dove il terrorismo rosso mosse alcuni primi passi determinanti, cronista all’Unità, dopo aver vissuto la parabola che dal momento magico del ’68 aveva prodotto rapidamente una deriva violenta. Condividevo quindi l’impegno del mio giornale e del Pci in una battaglia politica e culturale contro i terroristi e anche contro quella zona grigia dell’estremismo che non rompeva con i «compagni che sbagliavano». Ricordo polemiche molto dure con Il Lavoro diretto da Giuliano Zincone, dove scrivevano tra gli altri Gad Lerner, Daniele Protti, Luigi Manconi, che verso quell’area giovanile (e meno giovanile) movimentista manteneva interesse e apertura.

Avvertivo però il rischio di cancellare in quello scontro, e nel clima politico della «solidarietà nazionale», anche le buone ragioni di chi cercava di non disperdere la forza critica del ’68, senza la quale i propositi di modernizzazione del paese mi sembravano caricarsi di ambiguità.

In quel tanto – sempre troppo poco – di rielaborazione della memoria della sinistra e dell’Italia che si va compiendo per la coincidenza di anniversari importanti (Berlinguer, Togliatti, l’Unità…) e anche per la scossa prodotta dall’ascesa di Renzi nel Pd, non andrebbe rimossa quella stagione controversa e tragica.

Più che l’accertamento della eterodirezione delle Br a me sembra importante riandare alle culture costitutive di quei soggetti: l’estremismo e il terrorismo, il Pci e la Dc. Lo schematismo ideologico disperato di chi sparava e praticava il terrore. I limiti nella comprensione del mutamento profondo che l’Italia – e il mondo – stavano vivendo da parte del principale partito di governo e della più forte opposizione «comunista» dell’Occidente.

Leggo sul Corriere della sera Pierluigi Battista che riapre la polemica retrospettiva sulla «fermezza»: allora non si volle trattare con le Br per la vita di Moro mentre oggi si tratta con l’Isis per liberare gli ostaggi. Però americani e inglesi non lo fanno.

Forse per Moro quella via andava tentata. Il che per me non significa che la visione di Craxi fosse per il resto più adeguata di quella di Berlinguer e dello stesso Moro (che sul ’68 fece uno dei discorsi più aperti e intelligenti). Certo poi il terrorismo in Italia è stato sconfitto: ma l’assassinio di Moro ha prodotto una ferita che ha stravolto la politica italiana.