Venezia è tutto. L’ultimo romanzo di Tiziano Scarpa porta alle estreme conseguenze, le ingigantisce e le mette a nudo, le linee strategiche di un intero progetto narrativo (e le sue stesse aporie). Le storie dei tre protagonisti – l’anziano telecronista Nereo Rossi, l’aspirante scrittore Adriano Cazzavillan, il factotum turistico Carletto Zen –– ribadiscono gli assunti teorici di un’idea di romanzo che si muove fra i poli consueti del rapporto passato/presente, della ricerca dell’identità, del ruolo del linguaggio nella costruzione del soggetto e del reale. Ma la protagonista resta Venezia. Una città che emerge a poco a poco, e che si fa – mediante l’esperienza turistica – correlativo di esistenze necessariamente bidimensionali, fugaci, futili, costrette in un eterno presente incapace di elevarsi a significato.
Il cipiglio del gufo (Einaudi, pp. 384, euro  21,00) vale a dire il ridicolo rimbrotto moralistico su tale presente, è al tempo stesso lamentela sulla degradazione esistenziale e sulle analisi che la riguardano (romanzo in questione compreso). La stessa futilità del presente, quella che i protagonisti vivono come inevitabile consumazione di sé nel breve e insignificante spazio del qui e ora, non ha più alcun utopico contraltare (Venezia è ovunque).

Atti di natura linguistica
Il fratello poeta di Nereo Rossi, colui che ha superato lo spazio della telecronaca per creare qualcosa di eterno, è un demente che ha gettato via tutti i suoi scritti per avere in cambio come moglie una vecchia popolana veneziana; allo stesso modo il momentaneo abbandono di Venezia costerà la vita, nel finale del romanzo, a uno dei protagonisti: come a dire che oltre Venezia non c’è niente.
Il luogo dell’eterno presente imposto dalla città atterrisce i protagonisti ma incalza da presso lo spazio stesso della loro identità, quella che, come quasi sempre in Scarpa, si esprime mediante atti creativi di natura linguistica. Nereo Rossi, che come il Lord Chandos di Hofmannsthal sta perdendo la capacità di usare le parole (cioè di nominare le cose), arriva a riconoscersi quale «funzionario dell’epoca» e «poeta di corte» al servizio del puro presente, come le telecronache esemplificano.
Adriano Cazzavillan, che da buon frustrato umanista piccolo-borghese è inizialmente perso in sogni di palingenesi moralistica a cui per primo non crede, diventerà un mediocre scrittori di romanzi noir e scadrà poi – nella lunga sezione del romanzo fra cyberpunk e Christopher Nolan – da narratore ad aspirante personaggio di un esperimento ludico di realtà aumentata.
In questo spazio – a dimostrare l’avvenuta contiguità fra ciò che appare significante e ciò che non lo sembra (o se si vuole la realizzata egemonia del presente bidimensionale) – l’assoluta superficialità dell’esperienza avrà effetti concreti sulla vita reale. Solo in questo spazio, del resto, le parole riusciranno finalmente a manifestarsi con estrema solidità realistica, facendosi immediatamente produttrici di realtà.
Carletto Zen, infine, appare come il caso limite del trio: il suo lavoro nel settore turistico lo ne fa, infatti, l’immediata espressione dell’insignificanza che Venezia sottintende. Diversamente dagli altri personaggi, Carletto è fin dall’inizio privo di una sua fisionomia: il suo essere è sempre una proiezione dall’esterno, formato com’è unicamente dal desiderio femminile per una determinata parte del suo corpo.
Corrispettivo post-concettuale del Leopold Bloom joyciano (a cui alcune citazioni indirette lo ricollegano), «l’uomo medio sensuale» esprime il presente eternizzato di Venezia come spazio della seduzione erotica: «bisogna continuare a parlare del presente» (l’esperienza amorosa verrà infatti da lui interpretata al suo grado più alto come incontro fra due identità che non esistono). È nello spazio della seduzione, infatti, che mette in atto le sue strategie linguistiche.
Le parole sono, del resto, l’altro grande centro nevralgico, quelle parole che, come sosteneva Scarpa in Le cose fondamentali, devono allargarsi fino a diventare «protagoniste esse stesse». Alle parole si rivolge Nereo Rossi nel suo diario, e le parole stesse lo accusano (prendono voce come già nel Brevetto del geco) a causa del cinismo e dello scopo a cui le ha superficialmente piegate. Ma non manca anche in questo caso il controcanto ironico (esemplificato tanto dal progetto di Cazzavillan; scrivere un racconto sull’alfabeto, quanto dalla scoperta che la malattia di Rossi altro non era se non una truffa organizzata del medico).
Verrebbe da dire che c’è altro oltre le parole, ma la rappresentazione del reale (e la coscienza di star eseguendo una rappresentazione) è come sempre in Scarpa finalizzata a chiudere il quadro, a fare della scena delimitata dalla figurazione un frammento del tutto. Lo testimoniano i ritrattini di Carletto Zen: «Come sempre quando scarabocchiava i ritratti degli sconosciuti, poteva fare solo delle congetture su di loro, a partire da un’espressione, da un gesto che magari era casuale. No, non può essere casuale. È un frammento che è fatto della stessa sostanza dell’intero». Pur senza coltivare alcuna pregiudiziale ideologica contro questo tipo di progetto narrativo, è pur vero che l’idea dell’intero (della totalità, come si diceva una volta) deve contenere, per essere tale, gli elementi dialettici del suo superamento.

Eterna bidimensionalità
E, in conclusione, gli stessi elementi che fanno del Cipiglio del gufo un buon romanzo – a cominciare dai costanti e intelligenti parallelismi tematici che strizzano l’occhio al critico-lettore – impediscono tuttavia la piena realizzazione del progetto, perché la rappresentazione del presente fenomenico, che si vorrebbe realistica, si appaga troppo del proprio essere intero e rifiuta (ironizza, critica, demolisce) tutto ciò che al presente bidimensionale si oppone, mentre ne suggerisce l’inevitabile transitorietà (magari verso nuove e peggiori bidimensionalità).
Così, il rischio di farsi complice di ciò che si critica resta davvero altissimo. Riprendendo ma rovesciando un lucido giudizio di Matteo Marchesini su questo tipo di narrativa, il rischio sembrerebbe consistere non nel fingere di dominare il contesto storico e sociale invece di riconoscere «la palude informe di insensatezza» in cui viviamo, ma nel fingere di dominarlo mediante e in nome di quella palude informe, qui in veste, di bidimensionalità eternamente presentificata. Il rischio, in altre parole, è voler dare una immagine realistica del presente esclusivamente mediante il filtro della bidimensionalità. Ma l’intero non è mai solo il presente e la fotografia del presente non è mai realismo. Venezia non è tutto.