La reintegra in Alitalia Sai di cinque addetti di terra di Alitalia Cai, sacrificati nell’agosto 2014 – con altri 1.600 colleghi – sull’altare dell’accordo fra Alitalia ed Etihad, torna a illuminare la scena di quell’enorme esubero di lavoratori che precedette l’ennesima ripartenza dell’ex compagnia di bandiera. Una vicenda chiusa nell’imminenza della settimana di ferragosto. Poi dimenticata, se non nelle periodiche denunce della lunghissima (e dorata) cassa integrazione di piloti, steward e altri assistenti di volo. Che sono però solo una minima parte delle migliaia di addetti di terra licenziati da Alitalia negli ultimi anni. Lavoratori non di rado riassunti, perché indispensabili, con contratti precari, o da qualche società di servizi ad hoc.
Di fronte all’ordinanza del giudice del lavoro Giovanni Armone, che ha reintegrato i cinque addetti di terra fra cui Antonio Amoroso della Cub Trasporti, la Alitalia Sai (quella con Etihad) reagisce. Annuncia ricorsi in appello per i 16 lavoratori complessivi su 83 che, ad oggi, hanno vinto in primo grado. Ma la lettura operata dal giudice, in una causa ben studiata dagli avvocati Patrizia Totaro e Giuseppe Marziale a sostegno di Amoroso, fa leva su una sentenza della Corte di giustizia europea non facile da aggredire.
In sostanza, il principio è che il licenziamento di migliaia di lavoratori non può essere giustificato con la necessità del buon esito di una cessione dell’azienda, così come avvenne nelle pieghe dell’accordo fra Alitalia Cai ed Etihad, che non voleva assolutamente accollarsi gli addetti di terra. E la sentenza stabilisce di fatto l’illegittimità dei licenziamenti prima delle cessioni di ramo d’azienda.
In termini generali, ragiona il giudice, il trasferimento d’azienda non costituisce un’ipotesi di giustificato motivo oggettivo di licenziamento, in quanto non determina la soppressione dei posti di lavoro, ma la prosecuzione dell’attività da parte di un altro datore. Certo però una situazione di grave crisi aziendale, per la giustizia italiana, può portare a considerare legittimo il licenziamento, derogando dall’articolo 2112 codice civile.
Qui entra in scena la Corte di giustizia europea, che in una causa del giugno 2009 fra la Commissione Ue e la Repubblica italiana ha sanzionato l’Italia, ricordando che la direttiva 2001/23 vieta i licenziamenti quando c’è un trasferimento di ramo di azienda. Nell’occasione, ricorda il giudice, la Corte ha affrontato anche il problema della deroga. “E la deroga al divieto di licenziamenti in occasione del trasferimento d’azienda può operare, secondo la direttiva 2001/23, come interpretata dalla Corte di giustizia, solo in procedura ‘lato sensu’ liquidativa dell’impresa cedente, assoggettata a controllo giudiziario o di altra autorità pubblica”. E questo non è il caso di Alitalia Cai, che esiste tuttora, ed ha solo cessato la sua operatività nel settore del trasporto aereo.
“In ogni altro caso – chiude Armone – e dunque anche quando il cedente versi in una situazione di grave crisi aziendale, attestata da un’autorità pubblica, e anche quando la legislazione nazionale preveda l’apertura di una procedura concordata con le oo.ss, ma senza che l’obiettivo sia la liquidazione dei beni del cedente, i licenziamenti in vista della cessione sono vietati”. Esulta la Cub Trasporti, che annuncia nuovi ricorsi. Ricordando però, con amarezza: “Sono stati fatti tanti raggiri. Che la riforma Fornero, in molti casi, ha permesso di sanare con indennizzi ridicoli”.