Cultura

Estetica del frammento e coerente fedeltà all’immagine del reale

Estetica del frammento e coerente fedeltà all’immagine del realeVictoria Lomasko, una tavola tratta dal libro «L’ultima artista sovietica»

Tempi presenti «L’ultima artista sovietica», edito da Becco Giallo, riunisce una costellazione di fotogrammi quotidiani. La sua fonte d’ispirazione è nei disegni eseguiti nei gulag o a Leningrado durante l’assedio, oppure gli album manoscritti di carattere autobiografico dei soldati. Il libro prosegue l’esperienza di graphic journalism dell’artista già presente nel suo «Altre Russie»

Pubblicato 5 giorni faEdizione del 22 settembre 2024

Nel suo celebratissimo Sovietistan, Erika Fatland descrive lo spazio delle ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale come un coacervo di impulsi contraddittori e di derive geopolitiche imperscrutabili che si sottraggono a qualsiasi previsione. Non a caso, il reportage si apre con la descrizione del cratere di fuoco di Darvaza in Turkmenistan, originatosi nel 1971 in un giacimento di metano a seguito di improvvide trivellazioni e minimalisticamente ribattezzato a fini turistici «la bocca dell’inferno». Quale migliore metafora per un luogo dove pulsioni incandescenti a lungo sopite sembrano essersi inopinatamente riaccese dopo che l’ideologia sovietica, cito, «è stata gettata nella pattumiera della storia»?

FATLAND sposa infatti in pieno il punto di vista di Peter Hopkirk, secondo cui «il collasso del potere in Russia ha ricacciato l’Asia centrale nel grande calderone della storia». Una visione che sembra a sua volta richiamare alla mente la teoria di Jürgen Habermas secondo cui la caduta del Muro avrebbe reintegrato nel mainstream della modernità quei paesi dell’est che non l’avevano mai sperimentata, in quanto esclusi dai processi dell’evoluzione storica per tutta l’epoca comunista.

Sfogliando invece il bel reportage grafico di Victoria Lomasko L’ultima artista sovietica, uscito per Becco Giallo nella traduzione di Martina Napolitano (pp. 280, euro 20), ci si rende conto di come per la disegnatrice i lunghi soggiorni pre-pandemici in Kirghizistan, ma anche nel Caucaso, siano stati l’occasione per confrontarsi anche nostalgicamente con le tracce sempre più rimosse del comune passato delle repubbliche «sorelle» dell’Urss. Un’opportunità che, di lì a breve, si sarebbe inaspettatamente rivelata esaurita. Dal viaggio in Bielorussia dell’agosto 2020 in poi prevale infatti la sensazione di trovarsi catapultata in una nuova pagina della storia: l’ormai sopravvenuta certezza che un’eventuale arresto nel corso di una manifestazione non autorizzata equivarrebbe a un processo penale, e quindi alla fine del proprio progetto di artista, ha posto comprensibilmente fine al desiderio di Lomasko di servire, con i propri disegni realizzati in presa diretta, da «conduttore» per l’energia emanata dagli avvenimenti «nell’attimo stesso in cui hanno luogo» (come dichiarava l’autrice qualche tempo fa).

ASSEMBLATO nel corso della pandemia, L’ultima artista sovietica è quindi da una parte la prosecuzione al di fuori della Russia dell’esperienza di graphic journalism intrapresa con Other Russias (tradotto da Thomas Campbell e pubblicato nel 2017 a New York n+1 books; e poi tradotto da Martina Napolitano e edito nel 2022 da Becco Giallo), dall’altra la coraggiosa presa di coscienza dell’impossibilità di proseguire su tale strada, a meno di non mettere a repentaglio la propria incolumità fisica. Dall’arresto di Aleksej Naval’nyj e dalla rielezione di Vladimir Putin in poi, la Russia è infatti precipitata (agli occhi non solo di Lomasko) in una situazione che presenta più di un’analogia con quella sovietica – quasi la Storia avesse fatto il giro su se stessa.

Rispetto a Other Russias dove lo schizzo eseguito dal vero era lo strumento più semplice e, allo stesso tempo, più immediato per catturare sul posto le «scintille» sprigionate da una situazione o da un incontro, L’ultima artista sovietica, specie verso la fine, è pervaso da una tonalità più introspettiva, inevitabilmente legata all’interrogativo su cosa significhi essere un’artista d’opposizione nella Russia di oggi. Inalterata resta la cifra stilistica, il tratto netto, primitivo e sensuale del pennarello di Lomasko, che nelle tavole policrome richiama alla mente l’espressività dei pittori riuniti intorno al gruppo Fante di Quadri.
In genere avvicinata a Joe Sacco o a Marjane Satrapi per la sua sensibilità sociale, la disegnatrice nata nel 1978 a Serpuchov se ne distacca in realtà sotto il profilo formale per il rifiuto consapevole di qualsiasi struttura narrativa affidata alle immagini. I suoi disegni non si compongono in una sequenza scandita da un ordine preciso, ma restano sostanzialmente isolati, a formare una costellazione di fermi-immagine, ciascuno dedicato a una scena o a un personaggio in particolare.

LA SUA FONTE d’ispirazione non è la graphic novel occidentale, bensì i disegni eseguiti nei gulag o a Leningrado durante l’assedio, oppure i cosiddetti dembel’skie al’bomy, gli album manoscritti di carattere autobiografico con cui i soldati documentavano – fra schizzi, foto, testi – routine e vicissitudini del servizio militare. Rispetto al desiderio di raccontare una «storia» intesa come totalità coerente e intelligibile, prevale l’estetica del frammento, la volontà di fissare un attimo, una tranche-de-vie rigorosamente osservata e ritratta dal vero.

Tale strategia è evidente, ad esempio, nei reportage dal Kirghizistan e dal Caucaso, dove Lomasko, interagendo con attiviste locali, ma anche con semplici passanti, presta particolare attenzione alla questione femminile. Quantomeno eterogenee sono le reazioni che il semplice atto di disegnare provoca nelle sue casuali modelle: dalla donna daghestana che le fa notare come per la religione islamica lasciarsi ritrarre sia già in sé un peccato, alla giovane avvolta in una «veste lunga e nera» che, al contrario, in un parco di Oš le dichiara di voler essere anche lei inclusa nel suo schizzo (confidandole peraltro di aver trascorso tutta la notte lì con un ragazzo). Oppure la cliente del mercato di Machackala, che le restituisce il foglio, scontenta del proprio naso.

Al contempo, lo sguardo che Lomasko punta sulle protagoniste dei suoi reportage è quasi sempre biunivoco: soprattutto in Inguscezia i jeans che indossa e il suo taglio di capelli non mancano di suscitare lo sconcerto delle donne locali. Da osservatrice l’artista si trasforma così in «oggetto» osservato. Lo stesso rovesciamento avveniva anche in Other Russias, là dove manifestanti e agenti dei reparti speciali esprimevano una certa perplessità nel vedere Lomasko disegnare nel bel mezzo di un corteo o di una protesta, là dove l’obiettivo di una macchina fotografica sarebbe parso più appropriato.

D’ALTRONDE, oltre al proprio tenace attaccamento al medium desueto della matita, Lomasko aveva sempre rivendicato orgogliosamente la necessità etica di essere parte (quasi si trattasse di «una questione d’onore») della scena che andava delineando sul suo taccuino: «Come un danzatore danza seguendo la musica, anche l’artista deve disegnare al ritmo di ciò che vede». È dunque facilmente intuibile la frustrazione da lei provata nel 2020 nell’osservare dalla «deprimente Mosca» le foto delle manifestazioni a Minsk, trasformatesi dopo la rielezione di Aleksandr Lukašenko in una sorta di pericoloso appuntamento domenicale: «Avrei tanto voluto esserci anch’io in quelle immagini».

Verso la fine, il titolo del libro assume perciò un’amara sfumatura ironica: l’io che scrive e disegna non è più «l’ultima artista sovietica» nel senso di una nostalgia per il passato ormai definitamente volatilizzatasi, ma perché si ritrova a sperimentare in prima persona quella paura e quel senso di oppressione che accompagnavano la vita quotidiana della maggioranza degli artisti non ufficiali in Urss. Alla protesta e alla lotta politica subentra dunque la malinconica prospettiva (in realtà non esperita, dal momento che dal 2022 Lomasko vive all’estero) di un eventuale ripiegamento su se stessa. Di fronte alla situazione «cristallizzatasi» a Mosca nella primavera del 2021, l’autrice si era infatti sorpresa con una certa incredulità «a piantare fiori in cortile e, come quando ero bambina, a passare ore a disegnare le piante».

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