«Non solo chi fugge dalla guerra, ma anche chi scappa dalla povertà, dalla fame, dalla violenza ha diritto d’asilo». Ci vuole coraggio, visti i tempi, per proporre di allargare il diritto di asilo anche ai migranti economici. Lo sa bene il presidente Pietro Grasso intervenendo ieri a Lampedusa alla cerimonia per il quarto anniversario del naufragio che il 3 ottobre del 2013 provocò la morte di 366 migranti, tra cui molte donne e bambini.
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l presidente del Senato cita l’articolo 10 della Costituzione «quello – ricorda – che sancisce un diritto universale, il diritto d’asilo allo straniero al quale, nel suo Paese, sia impedito l’esercizio della libertà». Un diritto che adesso la seconda carica dello Stato propone di allargare a quanti fuggono non solo dalle persecuzioni, ma anche dalla miseria.

Grasso parla davanti alla porta d’Europa, punto di partenza della marcia in memoria della vittime della strage di quattro anni fa. Per ricordarle sono venuti in tanti sull’isola più a sud d’Europa. Studenti delle scuole italiane ed europee, associazioni, organizzazioni umanitarie, politici. Oltre a Grasso ci sono il commissario Ue all’Immigrazione Dimitri Avramopoulos, i ministri degli Interni Minniti e dell’Istruzione Fedeli. Ma soprattutto ci sono i superstiti di quella tragedia, accolti al loro arrivo dall’applauso dei partecipanti. In prima fila Thareke Brhane, del Comitato 3 ottobre che ha promosso l’iniziativa. «Siamo stanchi di contare i morti», dice. «Quello che chiediamo è che l’Unione europea apra canali umanitari e incida nei paesi di origine di queste persone che non sono dei numeri».

Quanto avviene nel Mediterraneo è il filo rosso che collega la tragedia di quattro anni fa con quanto accade oggi. Gli accordi stretti dall’Italia con la Libia per mettere un argine ai flussi hanno sì portato a una diminuzione degli sbarchi, ma il numero dei morti continua a essere alto. Come ricorda il cardinale Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento e presidente della Caritas italiana. «Davanti a questo mare di Lampedusa ci sono 30mila morti e sono solo quelli contati», ricorda. «Ma ve ne sono altrettanti non contati. Vogliamo e dobbiamo smettere di contare i morti. Bisogna abbattere i muri e i reticolati che ingabbiano anche i cuori e continuano a uccidere. Dobbiamo dire con forza ’Mai più morti’, ’Tutti devono sopravvivere e avere speranza’. Questa Europa stanca e debole deve cambiare».

La conferma di questa tragedia quotidiana arriva dai numeri delle vittime forniti dalla Comunità di sant’Egidio. «Se è vero che i numeri in assoluto sono diminuiti, le percentuali sono drammaticamente aumentate: nel 2015 su un milione e 15 mila sbarchi si contavano 3.771 vittime, nel 2016 su 362 mila erano 5.096 mentre nel 2017, fino a oggi, su 130 mila arrivi ben 2.655 hanno perso la vita, addirittura uno ogni 48 persone salvate», ricorda la comunità. «Oggi ricordiamo questi morti, ma le stragi continuano. Questo vuol dire che non è stato fatto quanti si doveva», dice padre Mussie Zerai, da anni un punto di riferimento per quanti fuggono dall’Africa e fondatore dell’Agenzia Habeshia. Che non risparmia critiche alla decisione del governo italiano di affidare ai libici il compito di fermare i barconi diretti in Italia. «I libici sono dei gendarmi a pagamento – ricorda il sacerdote eritreo -, svolgeranno i loro compiti finché l’Europa li pagherà. Ma il problema resta. Servono campi umanitari, interventi nei paesi di transito e di origine per combattere la carestia, la fame. Bisogna fermare le guerre e prevenire e affrontare con azioni mirate le situazioni di povertà».

Bisogna, soprattutto, creare dei canali legali per entrare in Europa, l’unico modo per riuscire a scavalcare veramente i trafficanti di uomini. Sono tutte le realtà intervenute a Lampedusa a chiederlo all’Europa. Un esempio positivo di come si possano aggirare le organizzazioni criminali sono i corridoi umanitari organizzati da Sant’Egidio con le chiese protestanti con cui in quasi due anni sono riusciti a far arrivare in Italia dal Libano 900 profughi siriani favorendo la loro integrazione.