Esteban Morales, accademico e autore di vari libri sui rapporti tra Cuba e Usa – l’ultimo «De la confrontacion a los intentos de normalización, Usa hacia Cuba» pubblicato dopo la visita all’Avana del presidente Obama – descrive così l’inizio del conflitto tra il più grande impero e la maggiore delle isole caraibiche: «Gli Stati uniti non si sono mai rassegnati alla perdita di Cuba. Sempre hanno considerato l’isola come la “bocca del Mississippi”, formata dalle sedimentazioni del grande fiume. Per questa ragione fin dalla fine del XIX secolo –una volta sconfitto il colonialismo spagnolo- ne hanno sempre rivendicato il controllo. Così quando Fidel Castro si recò negli Usa nel 1959, dopo il trionfo della Rivoluzione dei barbudos, per sondare la possibilità di instaurare rapporti normali -tra stati sovrani e indipendenti- con gli Usa trovò solo porte chiuse. L’unico che lo ricevette fu Richard Nixon – allora vicepresidente – il quale si rese conto che sia la Rivoluzione cubana sia il suo leader erano troppo radicali per poter essere controllati. Redasse un memorandum nel quale in sostanza affermava che bisognava sconfiggere il governo indipendentista – rivoluzionario e implicitamente far fuori il suo leader. Atteggiamento e politica che non sono mai cambiati fino ai giorni nostri».

Come reagì Fidel ?

Radicalizzò ulteriormente le posizioni del movimento che guidava con la dichiarazione del carattere socialista della Rivoluzione cubana (aprile 1961) e accettando l’aiuto che l’Unione sovietica gli aveva offerto l’anno prima nel corso della visita a Cuba di Anastàs Mikoyàn, braccio destro di Krusciov.

Certo non si trattava di offerte disinteressate, ma bisogna ammettere che senza l’aiuto di Mosca –che acquistò lo zucchero che gli Usa avevano rifiutato di continuare a importare e inviò le forniture di petrolio e gli armamenti che erano state tagliate dalla Casa Bianca, non sarebbe stato possibile continuare la politica voluta da Fidel: socialismo, indipendenza e aiuto ai movimenti antimperialisti in America latina e nel mondo. Gli Stati uniti non ci hanno risparmiato nulla: dall’organizzazione finanziamento e armamento delle bande controrivoluzionarie nell’isola (definitivamente sconfitte solo nel 1965) a attacchi e attentati fino all’invasione fallita della Baia dei porci nel 1962.

Fallito l’intervento diretto è scattato l’embargo.

Esattamente. Il decreto presidenziale 3467 del 1962 segna l’inizio del bloqueo. Il cui scopo dichiarato era affamare i cubani perché si ribellassero contro Fidel.

Con gli anni è diventato sempre più articolato e pesante ed extraterritoriale. Ma ha fallito, altrimenti oggi non saremo qui a discutere del conflitto con gli Usa. Il palese fallimento della politica ostile dell’embargo fu ammesso dal presidente Barack Obama, che per questa ragione ha tentato di dar vita a nuovi rapporti basati su un’apertura nei confronti dell’Avana.

Si trattava di una linea intelligente che non voleva certo appoggiare il governo socialista dell’isola ma in sostanza si proponeva di «normalizzare» Cuba con altri mezzi.

 

Fidekl Castro parla al popolo cubano armato il giorno prima dell’invasione della Baia dei Porci
Fidel Castro parla al popolo cubano armato il giorno prima dell’invasione della Baia dei Porci

 

Arriviamo ai giorni nostri con l’Amministrazione Trump sempre più aggressiva nei confronti di Cuba e del Venezuela…

Il presidente Trump ha attuato una decisa marcia indietro rispetto ad Obama: ha infatti ridato vita alla politica del blocco economico commerciale e finanziario con nuove misure che colpiscono soprattutto il turismo (una voce essenziale del nostro bilancio) e gli investimenti.

Inoltre ha usato la ridicola accusa di supposti «attacchi acustici» contro il personale dell’ambasciata americana all’Avana per congelarne di fatto l’attività.

Ma non ha potuto attuare una svolta di 180 gradi: sia i voli diretti Usa-Cuba sia le crociere di navi Usa nell’isola continuano e anzi sono aumentati. E vi sono settori dell’economia nordamericana che continuano a essere interessati a investire a Cuba. Dopo la conquista della maggioranza nel Congresso da parte dei democratici nelle ultime elezioni dello scorso novembre si sono rafforzati quei settori che sono contrari alla politica di government changing a Cuba.

Però la situazione è assai difficile e anzi pericolosa per Cuba e soprattutto per il Venezuela bolivariano.

La vittoria del neofascista Jair Bolsonaro in Brasile conclude un anno che – a parte l’elezione di López Obrador in Messico – ha visto il subcontinente continuare a spostarsi a destra in paesi importanti come Colombia, Cile e Paraguay, tutti allineati alla politica degli Usa…

Non vi è dubbio che il pendolo della storia è oscillato verso destra in America latina. E si sono create condizioni per una possibile aggressione nei confronti del Venezuela.

Ma non sono del tutto pessimista. Siamo ben lontani dagli anni ’70 del secolo scorso, quando tutta l’America latina era di fatto sotto il dominio degli Stati Uniti e Cuba era isolata.

La crisi globale, le tensioni tra gli Usa di Trump e la Cina, la Russia e anche con l’Ue tendono a creare spazi per il multilateralismo. Specialmente la crescente penetrazione economica e commerciale della Cina in America latina.

Dopo la visita del presidente Díaz-Canel a Mosca molta stampa internazionale ha ipotizzato un «ritorno a Cuba» della Russia di Putin per rispondere all’aggressività di Trump. Si è parlato della riapertura della base di ascolto elettronico di Lurdes (vicino all’Avana) e persino dell’invio di missili tattici.

Vi sono le condizioni per un rafforzamento dei rapporti con la Russia. Anche dal punto di vista degli aiuti militari, ma sempre in funzione difensiva. Per questa ragione, dopo l’esperienza della crisi dei missili dell’ottobre 1962, non ritengo che sia assolutamente credibile che Cuba voglia ricevere missili nucleari.

Diversa la questione della base di ascolto elettronico. La Russia non farebbe che rispondere a quanto già da tempo gli Usa fanno ai suoi confini europei.