Nessuna intenzione di sparare. Ma trovandocela all’improvviso ondeggiante a un metro dalla maschera lo spavento fu tale che il colpo partì all’istante, per spinta nervosa dell’indice piegato sul grilletto. Lo schermo di vetro di riflesso si appannò e trascorse qualche secondo prima di scorgere la punta centrale della fiocina conficcata in quella figura filiforme, nerastra, che dimenandosi più la trafiggeva, proiettando un’ombra inquietante sul chiarore sabbioso. La murena era spuntata in un tratto di fondale trasparente, sgombro di scogli e anfratti dove è solita aggirarsi e rintanarsi. I bermuda. Vistosi, di colore acceso, che coprivano fino alle ginocchia, i bermuda avevano agito da irresistibile esca. Impossibile sfiocinarla. Dal muso aguzzo e stretto, sulla corporatura allungata, quasi ovalizzata, sporgevano denti ancora aguzzi che reclamavano vendetta. Denti che, sapevamo, attraverso il morso iniettano una sostanza tossica, seppure dall’effetto blando. Il gommoncino a remi, di supporto, stava ancorato a cinquanta metri di distanza. Che impaccio! Lasciammo cadere l’asta di ferro. Il suo peso avrebbe trascinato sul fondo la preda prossima a esalare l’ultimo alito di vita per sfinimento. Neanche per idea. Contorcendosi a mezz’acqua, col ferro che le pendeva, riuscì a sfilarsi e in un baleno il suo profilo oscillante fluttuò nella corrente sottomarina, disperdendosi. Sospiro di sollievo per predatori occasionali e… involontari, nella circostanza. Se avessimo armato il fucile con l’arpione, che apriva le alette appena conficcatosi nelle carni, non avrebbe potuto più liberarsi.
La murena non è proprio quella specie di pesce dall’aspetto gradevole e rassicurante che induce ad ammirazione. Si farebbe volentieri a meno d’incontrarla, andando sott’acqua con la maschera che amplifica dimensioni e lineamenti. In una precedente immersione in apnea, dinanzi al costone roccioso sopra cui si erge l’antico faro a guardia del canale che mischia Adriatico e Jonio, riuscimmo a catturarne una e a issarla. I problemi sorsero sul canotto. Per non farci mordere, la ficcammo sotto il pagliolo. Ma ce la fece lo stesso a sgusciare in superficie, scivolare sul legno e tentare di attaccarci con bocca spalancata. Macché. Più che stressata, cercava solo di respirare la poveretta! Ricorremmo alle pinne, adoperandole come grossi cucchiai, per aiutarla a guadagnare il tubolare e guizzare oltre il bordo. Si dileguò fulminea in un gorgo a pelo d’acqua. La sua pellaccia, per mano nostra, non l’abbiamo mai portata a casa. A casa abbiamo continuato a portarla dopo essere passati dai banchi, sui quali è normale trovarla in bella vista, del mercato del pesce. Le sue carni tendenti al dolciastro, confuse con altri sapori, fanno da ingrediente essenziale nella preparazione di alcune varianti della zuppa di pesce.