Fracking e shale gas, Chevron e Barlad: ecco le parole chiave dell’agenda politica romena. Tutto è cominciato quando l’Unione sociale-liberale (cartello tra socialdemocratici, liberali e Partito conservatore) ha vinto le elezioni a dicembre. Appena ufficializzato il responso delle urne, il premier socialdemocratico Victor Ponta, già al potere dalla scorsa primavera dopo una sorta di «golpe bianco», ha annunciato l’intenzione di accantonare la moratoria stabilita dal precedente governo sulla frattura idraulica (fracking), la tecnica prevalentemente usata nell’estrazione di gas non convenzionale. Prevede l’immissione nel sottosuolo, dove il gas è intrappolato nelle porosità rocciose, di acqua a elevata pressione mista a sostanze chimiche.

Tale procedura, ampiamente usata negli Stati Uniti, dopo lo shale gas copre il 30% del fabbisogno energetico, genera ampie divisioni nel mondo scientifico e nella società civile. Da una parte c’è chi crede che abbia un impatto ambientale devastante; dall’altra chi sostiene che, se gestita con una tecnologia adeguata, non dia ragione di cedere agli allarmismi.

In Romania la seconda corrente di pensiero è più consistente. Da quando Ponta ha sposato il cambio di marcia sullo shale gas – la moratoria è scaduta a dicembre e come anticipato non è stata rinnovata – si sono registrate numerose proteste. L’ultima il 27 maggio. A Barlad. È la cittadina di cinquantamila abitanti, non distante dal confine con la Moldova e situata 270 chilometri a nordest della capitale Bucarest, divenuta l’epicentro del nodo shale gas. Questo perché da gennaio Chevron, colosso americano dell’energia, vanta una licenza estrattiva su un territorio molto vasto, nei dintorni della città, pari a 270mila ettari. Da allora i residenti, spalleggiati dagli ambientalisti, protestano contro le attività della compagnia, che – si sussurra – dovrebbe presto ricorrere alla frattura idraulica.

[do action=”citazione”]Il sudest europeo in rivolta. Romania, Bulgaria, Albania, Serbia/Kosovo e Croazia in piazza contro le multinazionali del petrolio, i traffici dei rifiuti, la devastazione delle coste[/do]

Il 4 aprile scorso, penultima grande manifestazione contro lo shale gas e Chevron, e di respiro nazionale. Si è marciato a Barlad e in molte altre città del paese. Inclusa Bucarest, ovviamente. I dimostranti, diverse decine di migliaia secondo le cronache, hanno chiesto a Ponta di ritirare le concessioni all’azienda americana e rimettere i limiti al fracking. Sembra che il primo ministro, secondo cui l’industria del gas non convenzionale renderà la Romania indipendente dalle importazioni di metano dalla Russia, non abbia la minima intenzione di farlo. La conferma arriva dal fatto che, proprio nei giorni scorsi, Chevron ha ottenuto nuove concessioni. Stavolta al largo delle coste del Mar Nero, nella regione che ha la città di Costanza come capoluogo.

Le proteste oltre confine

Intanto le parole shale gas e fracking, Chevron e Barlad, sono rimbalzate oltre confine, in Bulgaria. A Dobrich, nel nordest del paese, prossima alla frontiera, si è manifestato contro le scelte intraprese da Bucarest. La rimozione della moratoria sullo shale gas e le trivellazioni nel Mar Nero avranno conseguenze notevoli anche in Bulgaria, hanno spiegato coloro che hanno preso parte alla marcia, brandendo il motto «due paesi, una stessa acqua; due nazioni, una lotta». Una novità, vista l’indifferenza e la freddezza che segna la storia delle relazioni tra i due paesi dei Carpazi, anche sul fronte delle società civili. Un altro timore è dovuto alla possibilità che l’esecutivo di Sofia, che ha licenziato una moratoria sullo shale gas, possa fare marcia indietro nel caso in cui le trivellazioni in Romania dovessero davvero rivelare che lì sotto, come indicato dalla US Energy Information Administration, c’è un tesoro. Anche le riserve bulgare sono considerate abbondanti.

In ogni caso, le stime dell’agenzia americana vanno prese con le pinze. Tempo fa spacciò la Polonia come la cornucopia europea dello shale gas, scatenando gli appetiti delle grosse compagnie internazionali, fiondatesi in massa a Varsavia alla ricerca di licenze esplorative. Ne sono state rilasciate a dozzine. Negli ultimi mesi, però, s’è visto che le aspettative sollevate dalla US Energy Information Administration non sono state mantenute. Il sottosuolo polacco non è così denso di shale gas. E i colossi dell’energia stanno smontando le tende, alla spicciolata.

Xharra contro Obilic

In ogni paese della regione si riscontrano proteste e campagne dal timbro inequivocabilmente verde. È un cambiamento culturale. La tutela dell’ambiente – come della salute – trova infatti uno spazio sempre maggiore, in un contesto disabituato a temi del genere.

Una delle esperienze più significative è quella della rispettata giornalista Jeta Xharra, volto noto delle televisioni di Pristina, che ha fondato un’associazione, Kosid (Consorzio della società civile per uno sviluppo sostenibile), con un obiettivo perentorio: imporre all’opinione pubblica una chiara conoscenza del tasso incredibile d’inquinamento generato dalle centrali a lignite – Kosovo A e Kosovo B – di Obilic, alle porte di Pristina. Producono il 95% dell’energia del paese, ma al tempo stesso sono causa di migliaia di malattie respiratorie, accertate dagli organismi medici. Jeta Xharra, sfruttando la conoscenza del mezzo, ha avviato con Kosid una campagna basata su passaggi televisivi molto crudi, radicali. In uno di questi si vede un bambino che tossisce, mentre una voce narrante snocciola i danni alla salute causati dalle centrali di Obilic, invocandone la chiusura e sollecitando le autorità a imbastire la transizione verso le rinnovabili.

La giornalista sa che la sua è una battaglia senza troppe speranze e che non c’è l’interesse politico, tanto meno quello economico, a collocare fuori dalla storia i due bestioni di Obilic. Tanto che Kosovo A, con il sostegno della Banca mondiale, verrà sostituito nei prossimi anni con un altro impianto, più in linea con i parametri correnti. Una scelta paradossale, dicono quelli di Kosid, dal momento che Obilic non solo inquina, ma è anche sinonimo di corruzione. La vicenda del diplomatico americano James Wasserstrom ne è una prova eloquente. L’uomo, che si occupava di anti-corruzione in Unmik, la missione civile dell’Onu a Pristina, avvisò i suoi superiori degli strani giri d’interessi, che coinvolgevano sia l’élite politico-imprenditoriale locale, sia gli amministratori internazionali, creatisi intorno alle due centrali. Non fu ascoltato. Peggio ancora, il suo ufficio fu soppresso e non gli venne rinnovato il contratto. Pochi giorni fa Wasserstrom ha vinto una causa, da lui stesso avviata, presso l’Ufficio etico dell’Onu. La sua opinione, reputata pienamente legittima, è che la chiusura del suo ufficio sia dettata da logiche di natura politica.
Anche in Serbia una delle lotte più importanti, e in corso, è una protesta contro una centrale a lignite: quella di Vreoci, piccolo borgo a 50 chilometri da Belgrado.

Piccole comunità si sollevano

Gli abitanti hanno avviato una campagna contro i danni alla salute e all’ambiente provocati da Kolubara (è il nome della struttura), arrivando a portare le loro istanze al Parlamento europeo, dal momento che la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (Bers) ha finanziato con 80 milioni di euro il potenziamento della vicina miniera di lignite, linfa della centrale. «Le questioni più incalzanti concernenti l’ambiente nella nostra comunità sono le emissioni, l’inquinamento delle acque e le radiazioni elettromagnetiche», si legge nel documento che i cittadini di Vreoci hanno presentato nell’aprile 2012 ai deputati di Strasburgo, pregandoli di premere sulla Bers affinché non eroghi quei milioni.

Nell’ex Jugoslavia si è sollevata anche Visegrad, nella Bosnia orientale, nota per il celebre ponte ottomano, fonte d’ispirazione dello scrittore jugoslavo Ivo Andric, Nobel per la letteratura nel 1961. Il consiglio municipale, qualche settimana fa, ha dato il via libera a un ambizioso piano per l’estrazione di nichel e la concessione di apposite licenze. Il sottosuolo locale sarebbe ricco di questo metallo, risulta dagli studi dell’Agenzia geologica di Sarajevo. I cittadini si sono subito mobilitati con raccolta firme, attivismo online, manifestazioni. Con un obiettivo: chiedere agli amministratori di tornare sui propri passi.

Un docente universitario, Rajko Cvijic, della facoltà di mineralogia di Prijedor, ha messo in guardia le autorità rammentando che a livello mondiale ci sono esperienze deleterie nel comparto del nichel – l’inquinatissima città russa di Norilsk è il caso più emblematico – e l’attività estrattiva può avere ripercussioni spaventose in Bosnia, soprattutto sul sistema idrico, una potenziale risorsa energetica, più pulita, ma mai sfruttata a fondo.

Pattumiere e golf club

Ma non c’è solo la battaglia contro le centrali o i giacimenti di gas non convenzionale. In Albania, per esempio, è stato convocato a dicembre un referendum contro l’import di rifiuti dall’estero, opzione resa possibile da un provvedimento di due anni fa del governo Berisha. A promuoverlo, con una petizione che ha raccolto 64mila firme, i movimenti ecologisti, che sostengono come lo smaltimento di rifiuti di altri paesi sia un gigantesco paradosso, vista la cronica inefficienza domestica nel ciclo della spazzatura. Non solo: la tesi è che il business possa svilire le coste e danneggiare il nascente settore turistico. Senza contare che le ecomafie possono metterci tranquillamente lo zampino.

Anche in Croazia i gruppi verdi hanno lavorato a una consultazione referendaria. Ha riguardato, a fine aprile, a Dubrovnik il golf club, con annesse villette lussuosissime, che sorgerà sul cucuzzolo della collina che sovrasta la storica città adriatica. Per il comitato promotore, il progetto golfistico non è che l’ennesima speculazione edilizia, contro il paesaggio, sulle coste della Dalmazia. Ma il referendum non è passato. L’asticella del quorum non è stata superata. La sconfitta non ha demoralizzato gli organizzatori, pronti a sfidare nuovi abusi. In Croazia e nel resto dell’Europa sudorientale la consapevolezza che l’ecologia conta si sta sedimentando nelle pieghe della società e questo, forse, può costituire un «collante» regionale, un nuovo terreno comune. Forse.