Se un poeta si può riconoscere innanzitutto dall’urgenza di dire qualcosa, di far sentire la propria voce, Massimo Triolo lo è sicuramente, un poeta; e lo conferma ora questa sua terza silloge, Occhio e assenza, pubblicata da Raffaelli (pp. 196, euro 18). Per la verità Occhio e assenza non è solo un libro di poesie, perché a comporlo contribuiscono anche alcune pagine di prosa vera e propria, a cominciare dalla prima pagina (che contiene un’esplicita «dichiarazione di fini»); e gli stessi versi delle pagine di pura poesia hanno spesso a loro volta un’andatura prosastica, nel tono come nel ritmo.

EPPURE in generale è la postura di Triolo, comunque, a poter esser definita come poetica, aldilà dei metri adottati; e Occhio e assenza rimane senza dubbio una silloge, aldilà del fatto che non sempre siano presenti versi riconoscibili come tali.

L’OGGETTO dell’urgenza di Triolo è rappresentato dal suo stesso sé (che poi si tratti di un sé autobiografico o d’invenzione, o di entrambe le cose mescolate l’una con l’altra, importa poco, come sempre nella letteratura). È di questo «sé» che ci parla, Triolo: un sé quasi sempre frantumato, lacerato, ferito, in ogni caso mai pacificato; un sé spesso abitato da «spettri» e dal «chiasso»; un sé che «si contorce nel parossismo / di un’inquieta, sbracciata ricerca di responso, / di parola, di ascolto»; un sé in bilico tra ragione e sragione (come risulta di un’evidenza perfino dolorosa, tanto sono incalzanti e brucianti le parole, nelle pagine della sezione intitolata «Schizo-hard», dedicata alla descrizione dal di dentro di una serie di «sedute» che hanno tutta l’aria di provenire direttamente da un luogo di contenzione). Un sé, insomma, sempre a rischio di cadere, di perdersi, di ridursi a una semplice «manciata di sabbia / nella conca delle mani crepolate della mente».

ED È ATTRAVERSO QUESTO SÉ che Triolo, nelle sue poesie, guarda il mondo che ha davanti. Non esiste, nelle poesie di Occhio e assenza, una differenza fra ciò che sta dentro la mente di chi pensa e parla (Triolo stesso, o il suo «altro da sé» frutto d’invenzione) e ciò che ne sta fuori: non esiste confine fra dentro e fuori, fra mente e mondo, fra privato e pubblico. Il privato compenetra di sé tutto il pubblico, e viceversa: il pubblico è ciò che rimane una volta filtrato attraverso la pelle dell’io. Del resto Triolo lo dichiara esplicitamente, in apertura (in quella «dichiarazione di fini» di cui si diceva): «Abitate il desiderio, uscitene se volete, definite e ridefinite un territorio, ma non fate l’inventario dei vostri oggetti del desiderio! Io, lo dico, sono sempre altro, sempre altro da me … Fate della dimensione politica una vostra questione privata e dei vostri fatti privati una questione politica».

E SI VEDA AD ESEMPIO la poesia Le ragioni dei nostri Padri, nella quale anche la questione del lavoro e della perdita del lavoro, per quanto descritta tramite parole di sapore quasi giornalistico, da commento polemista («In fondo, questo è sempre il Paese delle opportunità … / La Terra Promessa si diceva, / ma tutti sanno che non potranno riscattarla in una vita; / e serve sangue, serve fatica, / per capire che c’è chi capitalizza e di nuovo vende, / e c’è chi ha speso l’ultima banconota stropicciata / alla seconda settimana del mese … / nello stesso posto che non ha lasciato in una vita»), trascolora al contempo attraverso un’esperienza personale, che le conferisce un sovrappiù di senso: «Adesso il mio dire è muto o è predace falco – / reso cieco e ammaestrato all’assassinio dal dolore».

Quello che si capisce, chiusa la raccolta, è che il discorso di Triolo non è destinato a finire qui, bensì a proseguire in altre urgenze, in altri racconti – di questo stesso sé, protagonista di Occhio e assenza, o di altri, che la vita e le cose porteranno a galla.