«Buongiorno, come state?». «Ci annoiamo». «Siete preoccupati?». «Un po’». «Torneremo a scuola, prof?».

I loro visi mi tornano smunti, pallidi attraverso il monitor del pc. L’immagine scatta, si blocca. Alle loro spalle peluches e gadget della squadra del cuore. Alcuni indossano cuffie che mi appaiono enormi, sproporzionate.
Sono più di due settimane che ci inventiamo un modo di essere scuola senza stare a scuola. Il ministero ha emanato note con indicazioni pretenziose quanto vaghe, di fatto «un armatevi e partite», che i dirigenti traducono in un’ulteriore pressione burocratica. La scuola, anche nell’emergenza, riproduce le sue rigidità, la gravità della sua macchina pachidermica. I docenti compilano rendicontazioni delle attività, riscrivono programmazioni per un tempo che nessuno può prevedere, in alcuni istituti interrogano i ragazzi attraverso gli schermi e mettono voti. Molti sono smarriti, vorrebbero replicare a distanza la didattica che svolgono in classe, ma non si può.

HO TELEFONATO ad alcuni genitori, mancavano i consensi informati. Ho impartito istruzioni tecniche a madri che mi hanno raccontato che hanno più figli da seguire e che in casa non c’è un computer per ciascuno, che non riescono a star dietro a comunicazioni che si susseguono ad ogni ora, a piattaforme che si moltiplicano. I ragazzi si impegnano, partecipano, ma lamentano il numero eccessivo di ore davanti allo schermo, connessioni traballanti, giga che sono sul punto di esaurirsi. Per il sovraccarico siamo costretti a disattivare le videocamere.

Intanto mio figlio di cinque anni è ancora davanti alla tv. Suo padre, autonomo a partita Iva, lavora più che può finché il lavoro c’è. Sua madre si prende cura di altri figli. Mi sento stanchissima, provo senso di colpa e frustrazione. Sono preoccupata per il mio bambino, mi chiedo che ripercussioni avrà sulla sua crescita la privazione di esperienze importanti. E vorrei sapere come stanno loro. Ismail, il papà del quale aveva perso il lavoro già prima che questo inferno iniziasse, Giovanni che aveva appena cominciato a socializzare con i compagni, Erica che è innamorata di una ragazza e in guerra con la mamma. In classe si leggono gli sguardi, la postura del corpo nei banchi, il linguaggio inequivocabile dei cappucci tirati sulla fronte. Dico loro che possono scrivermi per qualsiasi necessità. Qualcuno mi contatta per farmi sapere che non ce la fanno più, sono stressati. Qualcun altro per chiedermi come farà a recuperare l’insufficienza in latino.

MI RESTITUISCONO gli esercizi svolti, cerco di dare un feedback a tutti, un commento, un like. Mi tengo stretta questa didattica a distanza che è l’unica che abbiamo ed è preziosissima, perché ci permette di tenere in piedi una relazione educativa, di offrire loro un pezzetto di legno a cui aggrapparsi in questo mare aperto e di offrirlo anche a noi stesse. Vorrei che da qui imparassimo un modo nuovo di essere scuola, più empatico e meno ingessato.

Mi accorgo che, mentre continuo la mia lezione sulla peste di Atene, in chat hanno smesso di pormi domande e hanno preso a comunicare tra loro, a prendersi in giro, a scambiarsi battute sugli ateniesi che non avevano mantenuto il metro di distanza.

«Per oggi abbiamo finito. Riattivate un attimo le telecamere? Che belli che siete». Ridono.