Nell’ultimo romanzo di John Maxwell Coetzee, L’infanzia di Gesù (Einaudi 2013) la parola ‘filosofia’ è una di quelle che ricorre più spesso. Quando Simón, il facente funzione di padre per David, il bambino di cui si narra, si trova in ospedale a causa di un incidente sul lavoro, al porto, Eugenio, un compagno di lavoro, pensando di fargli cosa gradita – perché Simón è una persona seria, dice Eugenio – gli porta i testi del suo corso di filosofia. Simón guarda il libro e, come temeva, vede che parla di tavoli e sedie. È un libro di quel tipo di filosofia lì: quel tipo di filosofia, cioè, che muovendo dall’infinita varietà e diversità di tavoli e sedie che ci sono nel mondo si chiede quale sia l’unità di fondo di quella molteplicità, «che cosa faccia di tutti i tavoli tavoli e di tutte le sedie sedie». Ma questo genere di filosofia a Simón non interessa. «Che tipo di filosofia ti piacerebbe?» gli chiede allora, stupito, Eugenio. E Simón risponde: «Il genere che ti scuote. Che ti cambia la vita».

Da Coetzee al qui e ora

Ho pensato a Coetzee in questi giorni di appelli di filosofi per la filosofia e a sua difesa. E cercherò di dire perché, leggendoli, ho pensato alle parole di Simón. Che cosa dicono quegli appelli? Vi si richiama l’attenzione su un pericolo che riguarda la filosofia, si denuncia cioè il tentativo di un processo di marginalizzazione della filosofia all’interno dei diversi tipi di percorsi formativi nella scuola secondaria (attraverso un taglio delle ore e il progetto, per ora solo sperimentale, di ridurre nei licei da tre a due gli anni in cui essa è insegnata) e nell’università (soprattutto all’interno dei corsi di laurea non filosofici, dove se mai si è costretti a inserire una disciplina filosofica, si cerca quanto più possibile una filosofia speciale, una filosofia della, piuttosto che la filosofia in quanto tale).

A me pare, in primo luogo, evidente che quegli appelli sono davvero capaci di dire qualcosa solo se non mirano a una difesa disciplinare e corporativa, solo se riescono ad articolarsi come un discorso caratterizzato da una sua specifica ed esplicita dimensione politica che coinvolge l’idea stessa di scuola, l’idea stessa di università, in generale l’idea stessa di formazione. Se c’è infatti un elemento capace di tenere insieme le diverse riforme che hanno coinvolto e non di rado sconvolto negli ultimi vent’anni il mondo della scuola e dell’università, questa è l’idea che la formazione trova il suo senso e dunque la sua giustificazione nell’acquisizione di competenze specifiche in relazione a un saper fare, a una produttività e una applicabilità; acquisizione che assume il ruolo di fondamento (mi verrebbe da dire metafisico) di qualsiasi forma del sapere. La parola ‘competenza’ è probabilmente, e non a caso, la parola che ha caratterizzato più diffusamente e pervasivamente la cultura didattologica e pedagogica soggiacente ai più diversi documenti e tabellari ministeriali che hanno letteralmente invaso, in questi anni di conatus reformandi, la vita professionale (e non solo) di chiunque si occupi di formazione. Sia chiaro, niente di male, di per sé, nell’idea di competenza, nell’idea che la scuola e l’università si dedichino a fornire le competenze di cui un giovane ha bisogno per muoversi poi nel mondo del lavoro. Anzi, è evidente che questo è un dovere della scuola e dell’università.

Il male, se così si vuol dire, sta piuttosto nello scivolamento, sottile e devastante, in primo luogo in direzione di una identificazione dell’idea di competenza con l’idea di competenza professionale, di competenza in vista dell’accrescimento dell’efficacia e dell’efficienza – ecco le altre due parole chiave di una retorica suadente, persuasiva ed ideologica dove effettivamente tutto si tiene – in secondo luogo nella trasformazione della competenza, del servire-a, in vero e proprio fondamento, in ciò che, solamente, è in grado di fornire senso e giustificazione a un sapere.

Competenza, efficacia, efficienza (ma potremmo connettere a questi molti altri termini che compongono un vero e proprio vocabolario di questo modello politico-culturale) sono tutte parole connesse al funzionamento, all’idea del sapere come sapere fare girare la macchina, sapere come migliorarla per renderla sempre più veloce, più capace, più attiva, più performante.

È dentro questo quadro che assume un suo specifico significato la marginalizzazione della filosofia. Dentro questa retorica, infatti, qualsiasi sapere e qualsiasi discorso di cui non sia chiaro e immediatamente evidente in che senso esso concorre alla funzionalità del sistema, in che senso le competenze che esso produce non risultino plasticamente traducibili e spendibili in termini di efficacia ed efficienza, tende a perdere punti rispetto alla propria necessità e ad assumere un valore sempre più ornamentale e decorativo, utile, se proprio si vuole, al packaging comunicativo e al tempo libero e non certo al concreto processo di sviluppo di una società. Una sorta di elegante fiocchetto con cui accompagnare l’essenziale che ci dà effettivamente da mangiare. In questo senso, sembra difficile pretendere una qualche necessità se non addirittura centralità della filosofia una volta che si sia fatto proprio un modello culturale e politico o che (e questo mi sembra il caso più frequente) lo si sia cavalcato nella spocchiosa convinzione di poterlo poi astutamente piegare ai propri intelligentissimi interessi.

Da questo punto di vista ritengo che tutti i sacrosanti appelli per la filosofia e in sua difesa se vogliono davvero ciò che dicono debbano necessariamente muovere verso un discorso più ampio e complesso che coinvolge davvero, e radicalmente, l’idea di scuola, l’idea di università, l’idea di formazione. Un discorso che coinvolga non solo il mondo delle humanities (non è rara l’impressione che danno talvolta questi appelli di essere, un po’ come gli appelli del wwf, delle richieste di difesa della specie), ma anche quello delle scienze cosiddette esatte, altrettanto coinvolte da questo processo di funzionalizzazione del sapere e sicuramente disponibili a una riflessione sul senso dei saperi e soprattutto sul senso che esse svolgono all’interno dei processi formativi. Disponibili, certo, a patto che la filosofia non si ponga nei loro confronti, come sovente accade, altezzosamente come discorso in grado di offrire lo sfondo di significato a partire dal quale solamente esse assumerebbero il loro specifico senso.

E qui vengo all’altra questione che mi è stata sollecitata dalla lettura degli appelli di questi giorni e mi consente di tornare al letto di ospedale dove si trova ricoverato il povero Simón, nel romanzo di Coetzee. Quando si parla della necessità della filosofia e soprattutto quando si parla del suo ruolo fondamentale nella formazione, di quale filosofia si sta parlando? Della filosofia dei tavoli e delle sedie, per dirla con lo scrittore sudafricano, o della filosofia come esercizio spirituale e modo di vivere, per dirla con Pierre Hadot? La questione è assai meno peregrina di quanto si possa pensare e ritengo che anzi oggi, dopo tanti discorsi sulla divisione e sul dialogo fra filosofia analitica e filosofia continentale, una seria e vorrei dire spietata interrogazione della filosofia su se stessa sia davvero necessaria. È complicato, infatti, da una parte dichiarare la necessità e l’inaggirabilità formativa della filosofia ad esempio in termini civili (mi pare questo il punto, a mio parere debole, su cui insistono gli appelli) e contemporaneamente pensare e dire che il tipo di filosofia praticato da alcuni, magari dal collega della stanza accanto, dal collega di un altro settore scientifico disciplinare, non ha in realtà nessuna intrinseca necessità, è un modo inadeguato di pensare la filosofia o addirittura è un modo dannoso che conduce a una radicale distorsione di ciò che la filosofia è. Finchè non si prende di petto tale questione, non per giungere a un irenico compromesso, ma per evidenziare in che senso i diversi approcci alla filosofia, anche scontrandosi fra loro, concorrano però tutti alla costruzione del discorso filosofico è difficile pensare seriamente a una giustificazione della necessità della filosofia all’interno dei percorsi formativi, siano essi scolastici o universitari.

Sotto il segno di Gentile

Qual è la filosofia di cui si vuole mostrare la necessità, ad esempio, all’interno della scuola? L’insegnamento della filosofia nella scuola italiana è ancora, volente o nolente, consapevolmente o meno, segnato dall’approccio filosofico (e politico) di Giovanni Gentile. Il fatto che la filosofia debba essere insegnata solo nei Licei, che nei licei classici e scientifici l’insegnante di filosofia sia anche l’insegnante di storia (cosa che stupisce sempre i nostri colleghi stranieri) e che sostanzialmente l’insegnamento della filosofia sia praticato nella forma della storia della filosofia è del tutto coerente con l’impianto gentiliano, con l’idea elitaria della scuola che caratterizza il pensiero di Gentile, con l’identificazione, che segna in modo così profondo il suo sistema, fra filosofia e storia della filosofia e, più in generale, fra filosofia e storia. Forse nel momento in cui giustamente si chiede di non marginalizzare la filosofia nei percorsi formativi, varrebbe la pena ripensare radicalmente l’architettura generale dentro la quale si articola il suo insegnamento. Un’architettura niente affatto neutra e ininfluente rispetto alla possibilità di pensare, appunto, la necessità di un sapere quale quello filosofico all’interno dei curricula scolastici o in corsi di laurea non filosofici. E dico questo non pensando, in nome di un patetico nuovismo o di una spesso tronfia retorica della modernizzazione, di far fuori la storia della filosofia a favore di una filosofia intesa come puro esercizio di problematizzazione, separato dalla necessità di un riferimento ai testi e agli autori, come avviene ad esempio nella scuola francese.

Retoriche da decostruire

Penso a una filosofia in grado di mostrarsi, anche e soprattutto attraverso la sua storia, come critica delle diverse forme di presupposizione assunte come scontate, come capacità di mettere in questione tutte quelle parole che spesso il discorso pubblico assume come non necessitanti di discussione alcuna, come possibilità, attraverso l’argomentazione, di decostruire le pratiche discorsive che si fondano sull’autorità della persuasione e, dunque, del potere.

Non penso, insomma, quando penso alla scuola, né a una filosofia dei tavoli e delle sedie, né a una filosofia «che ti cambi la vita». Penso semmai a una filosofia che sia in grado di mostrare in che senso anche l’interrogazione intorno ai tavoli e alle sedie non riguarda solo i tavoli e le sedie, ma coinvolge più radicalmente il nostro rapporto con gli altri, con il mondo e con l’esistenza; insomma, il nostro rapporto con la vita. Al punto anche, caro Simón, da poterla cambiare.