«Lydia è morta. Ma questo ancora non lo sa nessuno. 3 maggio 1977, sei e mezza del mattino, nessuno sa nulla se non una semplice cosa: Lydia è in ritardo per la colazione»: il romanzo d’esordio di Celeste Ng, Quello che non ti ho mai detto (traduzione di Manuela Faimali, Bollati Boringhieri, pp. 270, euro 17,50) pubblicato l’anno scorso negli Stati Uniti, ci porta fin dalle prime righe nel cuore di un thriller che ruota intorno alla scomparsa di Lydia Lee, sedicenne cresciuta in una famiglia benestante di una piccola cittadina dell’Ohio, Middlewood. Nella vita dei Lee tutto è scandito dall’adesione ai valori della classe media americana: il padre di Lydia, James, è docente di Storia Americana nel piccolo college in cui è finito quando ha rinunciato al sogno di una carriera prestigiosa per garantire la sicurezza economica ai figli; sua moglie Marilyn ha seguito i figli con una sollecitudine premiata dall’ammissione del maggiore a Harvard e dall’apparente successo scolastico di Lydia. In questo tripudio di normalità c’è un unico elemento dissonante: James Lee è di origine cinese e la sua è l’unica famiglia mista che sia mai finita a vivere in quell’angolo di mondo.

Era il 1958 quando James, figlio di immigrati clandestini che avevano lasciato la Cina dopo la Seconda Guerra Mondiale, si era innamorato di Marilyn Walker: lui era un promettente studioso di cultura western, lei una studentessa di medicina cresciuta in Virginia e decisa a lasciarsi alle spalle il provincialismo razzista. Nel corso degli anni sessanta il movimento statunitense per i diritti civili aveva portato a una trasformazione profonda, e Celeste Ng – a sua volta nata negli Stati Uniti, alla fine degli anni sessanta, in una famiglia appena arrivata da Hong Kong – sceglie di inserire nel romanzo alcuni riferimenti alla cronaca di quegli anni, a sottolineare l’enormità delle trasformazioni politiche che in quella stagione vennero avviate. Un razzismo intangibile e insidioso affligge la vita della famiglia Lee: piccoli sgarbi, inviti mai contraccambiati, la crudeltà spietata dei bambini che ripetono i discorsi degli adulti. Così, mentre le indagini della polizia sembrano poco interessate a fare i conti con i possibili intrecci tra violenza razziale e brutalità misogina, il quadro familiare si complica e la narrazione di Ng sovrappone piani temporali e punti di vista ricostruendo la vita di Lydia attraverso un raffinato incastro di flashback.

Capitolo dopo capitolo, quella che sarà la scena del crimine si fa più ampia e più complessa, mentre i frammenti temporali si accumulano, contribuendo a una ricostruzione del passato che emerge in superficie progressivamente, con una successione resa avvincente dal continuo mutamento di prospettiva dei personaggi. Se la trama investigativa è quella più visibile, il tema principale del romanzo ha però a che vedere con le tracce impercettibili che la vergogna deposita anno dopo anno nella mente e nel corpo di chi si trova a incarnare una diversità disprezzata dal contesto. L’orgoglio di James e Marilyn, la loro accettazione di vedersi disapprovati da genitori e amici cui oppongono il loro amore, si trasforma nel corso degli anni nell’autoinganno che impedisce di ammettere il fallimento della integrazione alla quale avevano aspirato. Quando un amico di Lydia le chiede come ci si senta in quanto unica cinese di Middlewood, lei esita: «A volte quasi te lo scordavi di non essere uguale a tutti gli altri. Nell’aula magna o all’emporio o al supermercato, mentre ascoltavi gli annunci del mattino o consegnavi un rullino o prendevi un cartone di uva, credevi di essere una come tanti…». Il peso della differenza, la forza della tradizione, la fragilità dell’adolescenza, sono questi gli ingredienti che Ng dosa con una abilità che è valsa al suo romanzo il premio della libreria online di Amazon come Libro dell’anno 2014: e, in effetti, mentre illumina un aspetto poco noto delle tensioni razziali statunitensi, questa trama ci immerge nei silenzi, nei fraintendimenti e nelle zone d’ombra in cui è avvolta ogni storia familiare.