Ripensare la rivoluzione, ripensarne la trama e l’atmosfera per sottrarla alla postura tipica della modernità, che la esilia da incanto, evocazione, e sragione. Il compito del lavoro dell’antropologa Stefania Consigliere, Favole del reincanto. Molteplicità, immaginario, rivoluzione (Deriveapprodi, pp. 222, euro 18) è avventuroso per davvero e come tutte le avventure presenta rischi e strettoie, altezze ed euforia da vetta.

È ANCHE AVVENTUROSO in senso materico, svolgendosi come un viaggio frammentato tra posti e riflessioni, dall’Atene del no al referendum alla Sarajevo deturpata dalle bombe, dal deserto marocchino al ponte di Genova. Ininterrotto dialogo con il possibile, di quelli che trovano una via eletta al procedere tra il vissuto e il pensato, in un margine poco battuto dalla conoscenza, imbalsamata, forse come la rivoluzione, in strutture pesanti da scalfire. «La modernità – dice – è un dio geloso, è un dio espansivo che incessantemente aggredisce ciò che non risponde alla sua logica».

IL PROGRESSO AGIREBBE come un fanatismo liquidando tutto quello che non può essere messo a valore, tutto quello che non è funzionale al capitalismo, come passatismo. Trappola mortale per le rivolte, perché non appena concludono il loro afflato irrazionale e sentimentale, non appena smettono d’essere una pratica d’amore, riproducono gerarchie e potere che imbalsama le coscienze. L’amore, la philia, la gioia (tutto quello che nelle tasche delle nostre insorgenze ci ha messo Spinoza) sarebbero esiliate dalla modernità. Con loro anche le suggestioni, i riti di Eleusi, le alterazioni di coscienza, i sogni, la malinconia di certi alberi, l’euforia di certe montagne. Tutto un universo espunto dalla vita perché inaddomesticabile.

CONSIGLIERE PROCEDE nell’illustrazione di questo accaduto a volte scoraggiandosi per un reale di passioni tristi che troneggia senza cedimenti, altre volte inneggiando a certi incontri, a certe bellezze di sguardo. Un andamento poco stabile, forse, e che corre il rischio di rendere troppo piatte le alternative, come se la linea di separazione tra quello che ci porta felicità o infelicità fosse una cosa nitida e non il sentiero scosceso.

«Alcuni temono – avverte – in tutto ciò, la rovina dell’illuminismo, della ragione critica, del senso stesso della civiltà occidentale. Il rischio esiste. Ma mi chiedo se una tetragona fortezza a tripla cinta muraria senza porte né finestre né ponti levatoi, con l’aria pompata da macchine, maxi schermi a ogni parete e piped music negli ascensori non sia qualcosa di molto peggio di un rudere. Fra le rovine almeno crescono le piante selvagge e i fantasmi che vi si aggirano hanno un nome». Si tira in ballo la nuda vita, ma non ha l’aria professorale qui. Ha invece la delicatezza che si può trovare nel racconto La reliquia vivente di Ivan Turgenev, dove in una scheletrica donna abbandonata in un fienile la vita, nella sua forma più compassionevole, si dava senza avidità, gioiendo di niente se non dell’esistenza stessa.

MUGUGNERANNO gli ortodossi della pratica marxista che ci chiedono di pensare alle cose in termini di relazioni materiali perché nella superficie si legge la verità. E non hanno torto, storicamente parlando, ma c’è qualcosa nelle esistenze di ineffabile, che continua ad esistere al di la dello sfruttamento del padrone, una bellezza che resiste all’osceno.

È il guizzo irriducibile della rivolta, il mistico della sommossa, il gesto del comunardo che sparava sugli orologi, la forza che Fanon ci ha chiesto di vedere nelle vite dei marginali. Uno scorcio di questa pratica «anti moderna», per prendere a prestito dal libro l’uso che fa del termine, lo si può vedere tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento. Tra l’anomalia dei moti di Parigi (amatissimi da Marx) e il sogno del 1917, quando «la fioritura è magnifica. Le scienze, per prime, accolgono teorie che portano la molteplicità e l’incompletezza al cuore dell’impresa conoscitiva».

Viene in mente Alexander Bogdanov, rivoluzionario e scienziato, che usava l’amore per interrogare la natura sussultoria delle cose, addomesticate da una esigenza di linearità forse solo dal nostro non avere confidenza col caos e con il molteplice. Come dire che della felicità dovremmo smettere di avere paura.