Il martirizzato d’Arcore è un orso in gabbia. Più fuori di sé di quanto mai sia stato negli ultimi pur furibondi mesi. Si agita e si lamenta, sbraita e minaccia, scuote le sbarre sempre più forte, ma la via d’uscita non la trova.
La furia del Berlusconi ferito esplode prima ancora che venga sancita ufficialembnte la scelta della Giunta per il regolamento a favore del voto palese sulla sua decadenza, non appena l’esito viene prefigurato con certezza. Il capo annulla ufficialmente il pranzo con i ministri, in realtà già stato cancellato nella notte, dopo l’incontro andato a vuoto col solito Angelino Alfano. Un gioco delle parti sempre uguale, ma stavolta arrivato a livelli massimi di drammatizzazione. Da un parte la richiesta di impegnarsi ad aprire la crisi un attimo dopo il «vulnus alla democrazia» rappresentato dal voto sulla decadenza, dall’altra l’ambiguità di un uomo che non vuole rompere con il governo di cui è vicepremier ma neppure con il leader da cui rischia di dipendere per intero il suo futuro politico, e dunque si trincera dietro frasi di circosrtanza, come: «Tanto i numeri per la crisi non ci sarebbero comunuque».

Ma per Berlusconi la misura è colma. Inutile parlare con fedifraghi come la Di Girolamo, che s’indigna e solidarizza, però aggiunge che «la stabilità di governo l’abbiamo già stabilita il 2 ottobre», o con felloni come Quagliariello, che nell’ora più nera invita, calmo calmo, a «non perdere la lucidità».
Qualcosina in più si potrebbe forse tirare fuori dagli altri tre ministri. Pure loro tuonano e ruggiscono pure loro ma non si lasciano scappare una sillaba che suoni minacciosa per il governo. Ma almeno non si buttano neppure dalla parte opposta esaltando stabilità e lucidità. Ma anche lì il Furioso subodora tradimenti. Cosa significa il proclama di Alfano. «Ora daremo battaglia in Parlamento»? Niente. Una riga bianca. Chiacchiere spese per nascondere l’indecisione nella migliore delle ipotesi, la scelta di abbandonare il decadendo al suo destino nella peggiore.
Nell’ora del dolore re Silvio convoca Letta e i capigruppo, Brunetta e Schifani, e poi i fedelissimi, quelli sulla cui disponibilità a far saltare tutto può contare con assoluta sicurezza, a partire da Raffaele Fitto, «ricevuto» in serata. Ma nemmeno per i più abituati alle recenti sfuriate è facile trovare un filo chiaro in questo fiume di rabbia impotente. Berlusconi vuole la crisi e la vuole subito, senza nemmeno attendere il giorno dell’esecuzione. «Mi hanno chiuso anche l’ultimo spiraglio, quello del voto segreto». Crisi sulla legge di stabilità, sul decreto Università, su quel che capita, purché si sfasci tutto.

Fitto è più lucido. Almeno ha in mente una linea di condotta. Propone di anticipare la riunione del Consiglio nazionale fissata per l’8 dicembre e di chiedere a tutti di sottoscrivere il documento presentato da Berlusconi all’ultimo ufficio di presidenza. Così, alla fine, Alfano sarebbe costretto a uscire dalla sua tana, i fedeli e gli infidi dovrebbero mostrarsi e contarsi. Così, soprattutto, il dado sarebbe tratto una volta per tutte. Sepolto il Pdl, la nuova Forza Italia (che nella tempesta di ieri Berlusconi ha anche minacciato di volere «nuovissima», senza falchi né colombe né pennuti vari) passerebbe dritta all’opposizione, prima auspicando la crisi, poi sperando nell’avvento di Renzi per chiudere la tenaglia in gennaio, ma disposta anche ad attrezzarsi per una lunga guerriglia, forse anche fino al 2015.

La proposta viene acclamata subito, e coralmente, da tutti i «lealisti». Qualcuno, come Bondi, si spinge oltre: «Ci limitiamo a belle dichiarazioni di facciata. Probabilmente fanno bene a trattarci così, perché non dimostriamo alcuna fede politica autentica».

Per sapere cosa farà davvero Berlusconi bisognerà attendere qualche ora o qualche giorno, il tempo di far sbollire l’ira e riportare un po’ di lucidità prospettica. Ma tutto indica che ormai siamo agli sgoccioli. Da tre mesi il Pdl si dilania in un estenuante congresso non dichiarato, gicato intorno alla decadenza di Berlusconi e alla conseguente scelta di appoggiare o meno il governo. Durerà ancora qualche settimana. Non di più.