Gli sciiti sauditi si sono sollevati, la polizia del regno ha risposto con il fuoco. Domenica a morire sotto i colpi dei poliziotti di Riyadh è stato Ali Omran al-Dawood, ucciso durante gli scontri esplosi a Awamiya, nella regione nord ovest di Qatif, reazione all’esecuzione del religioso sciita Nimr al-Nimr. Le forze armate – raccontano testimoni a Middle East Eye – hanno circondato un gruppo di giovani che stava dando fuoco a dei copertoni, la scintilla che ha fatto esplodere le violenze.

Scene simili, migliaia di manifestanti in piazza, si sono viste negli ultimi due giorni nelle principali città della Provincia Orientale, la zona dove la comunità sciita si concentra. Tra le più ricche di petrolio, è stata il teatro della silenziosa primavera araba saudita, quella che al-Nimr tentò di guidare senza violenza, con le parole, contro l’assenza istituzionalizzata di democrazia del paese. La protesta è stata soffocata, come è stata soffocata quella nel vicino Bahrein, dalla repressione militare dei Saud. Tre anni dopo al-Nimr ha pagato con la vita, riaccendendo però gli animi di chi sa di vivere come cittadino di serie B.

La rabbia era attesa ed è esplosa subito, in tutto il Medio Oriente: da Teheran a Istanbul, dal Bahrein all’Iraq. Due moschee sunnite sono state attaccate da manifestanti iracheni a Hilla, sud di Baghdad. Immediata la reazione del governo: il premier al-Abadi ha chiesto alle forze di sicurezza di individuare «le gang criminali» responsabili degli assalti, accusandole di «agire come Daesh». Baghdad teme l’ennesimo contagio settario esterno, in un periodo cruciale nella battaglia contro l’Isis, in cui fondamentale è ricucire le anime religiose e etniche del paese.

Solo l’intervento preventivo della polizia irachena ha impedito che simili attacchi si ripetessero nella capitale, durante la partecipata protesta che ieri ha avuto luogo di fronte all’ambasciata saudita – appena riaperta – a Baghdad: in migliaia hanno bruciato foto di re Salman e marciato con cartelli in mano che accusavano Riyadh per l’esecuzione di al-Nimr. Tra loro centinaia di sostenitori del religioso sciita Moqtada al-Sadr che hanno chiesto l’immediata chiusura della sede diplomatica saudita.

Proteste di fronte alle sedi consolari saudite si sono tenute anche a Istanbul e Beirut, mentre la violenza esplodeva in Bahrein, paese a maggioranza sciita guidato dalla dinastia sunnita degli al Khalifa che più di altri ha pagato con il sangue l’interferenza militare e politica dell’Arabia saudita. La primavera bahreinita è stata soffocata dall’esercito dei Saud, nel silenzio del mondo che puntava gli occhi solo sul Nord Africa, ma i fuochi sono ancora accesi: gli ultimi giorni hanno visto riproporsi gli scontri tra polizia e manifestanti sciiti, aggrediti con cannoni ad acqua e gas lacrimogeni.

E mentre la gente si sporca le mani, la comunità internazionale emette flebili condanne e avverte del timore di un’escalation delle divisioni settarie mediorientali, limitandosi a descrivere il confronto come il prodotto di un odio atavico tra comunità sunnita e sciita. Eppure la morte di al-Nimr dice altro: il religioso si era fatto portavoce della lotta per uguaglianza e democrazia, contro la politica dittatoriale e settaria di Riyadh, una lotta che va al di là della mera appartenenza religiosa. Ma in Occidente si preferisce proseguire nella via della frammentazione: lo fa il Dipartimento di Stato Usa quando parla di «rischio di esarcebare le tensioni settarie» e lo fa l’Europa con la rappresentante agli affari esteri, Mogherini, che propone uno sterile eco a Washington.