Sospeso tra muto e sonoro, melodramma e musical, Il cantante di jazz (Alan Crosland, 1927), il primo talkie, sembra fatto apposta per incarnare la svolta della fine degli anni venti destinata a cambiare il corso del cinema. Quando Al Jolson inginocchiato, le braccia protese verso gli spettatori, canta “My Mammy” il pubblico impazzisce. Naturalmente la rivoluzione tecnica non diventa subito rivoluzione estetica. Soltanto nei decenni successivi il cinema americano raggiunge la maturità, in bilico tra autore e artigianato, routine e trasgressione, prototipo e serie. Il cuore del sistema, anzi dello Studio System, è la codificazione dei generi che, con le loro forti scansioni spettacolari e le capacità di assecondare le attese degli spettatori, svolgono un ruolo determinante in un’epoca in cui anche l’autore più geniale deve fare i conti con le regole dell’azienda e nessuno può infischiarsene dei risultati del box office.

Il decollo del musical, il genere più nuovo che senza il sonoro non ci sarebbe neppure, avviene soltanto quando la musica dei compositori più dotati – Irving Berlin, Cole Porter, Jerome Kern, George Gershwin – s’incontra con il genio di Busby Berkeley, il grande coreografo che con l’estro inimitabile dell’invenzione tecnica e la disinibita follia visiva sigla gli anni di formazione in un gruppo di film della Warner Bros. del ’33, da Quarantaduesima strada e Viva le donne! di Lloyd Bacon a La danza delle luci di Mervyn LeRoy, che si rivelano profondamente innovativi sul piano del linguaggio. Il dinamismo delle immagini, le inconsuete angolazione della cinepresa, le scandite composizioni dei balletti si scrollano di dosso la polvere del palcoscenico, mentre dialogano con lo slancio creativo delle avanguardie artistiche. Il paradosso è che senza rinunciare alla formula del blackstage musical, cioè raccontando sia pure con varianti la messa in scena di una rivista, tutti e tre i film riflettono il clima della Grande Depressione e lo spirito del New Deal, le difficoltà e le speranze di un momento drammatico della storia americana. Non solo Quarantaduesima strada è paradigmatico nel modo in cui anche l’ambiente dello spettacolo vive la crisi, ma il celebre “Remember My Forgotten Man”, il blues sul combattente della prima guerra mondiale vittima della disoccupazione di La danza delle luci, è una commossa denuncia del problema dei reduci. Mentre le file dei soldati in partenza si confondono con i disoccupati che avanzano verso il pubblico, ci si accorge una volta di più che le astratte geometrie di Busby Berkeley, i suoi caleidoscopici onirismi sono tutt’altro che fuori dalla realtà e dalla Storia.

Quando sullo schermo coinvolgente del musical irrompono Fred Astaire, Gene Kelly e Jacques Demy si entra nello spazio privilegiato del mito da cui – tra voci, canzoni, colori – prende il via la bellissima mostra “Comédies musical, la joie de vivre du cinéma” alla Philharmonie de Paris fino al 27 gennaio. La svolta del dopoguerra coincide con l’affermazione di una nuova generazione di registi – Stanley Donen, Vincente Minnelli, Gene Kelly – a cui si deve la trasformazione del linguaggio del musical in stile. Il film che segna il passaggio dal clima artificioso del passato al nuovo corso è Un giorno a New York (Stanley Donen, Gene Kelly, 1949), dove Gene Kelly, Frank Sinatra, Jules Munshine non sono gente di spettacolo ma tre marinai che sbarcano per la prima volta a New York con una licenza di ventiquattr’ore. Sconvolto da un adrenalinico scoppio di energia, il musical non sarà più lo stesso. Le tavole del palcoscenico sono sostituite dalle strade, dalla metropolitana, dall’Empire State Building, il punto più alto della Grande Mela, che non è solo lo scenario privilegiato in cui i tre si scatenano a caccia di ragazze, ma un vero e proprio protagonista. Qui ci sono già le premesse di quello che di lì a poco sarà Cantando sotto la pioggia (Stanley Donen, Gene Kelly, 1952) che rivisita il luogo del delitto, la storica prima dell’autunno 1927 in cui tutto è cominciato. Animato dall’energetico vitalismo di Gene Kelly, guarda con ironia al parlato degli inizi per vedere meglio nel futuro. Racconta il decollo del sonoro, ma allude all’arrivo della televisione che già comincia a sottrarre spettatori alle sale e nel giro di qualche anno segnerà la crisi di Hollywood e di una stagione irripetibile del cinema.

Spettacolo di varietà (Vincente Minnelli, 1953) dell’anno dopo non è solo uno dei grandi capolavori del musical, ma anche un atto d’amore per il mondo dello spettacolo, per gli attori, i ballerini, i professionisti che consentono al mito di andare in scena. Se sono moltissimi i film che riprendono la formula del backstage, è estremamente raro che la ricostruzione del “dietro le quinte” riesca a coincidere con l’omaggio al protagonista, una sorta di “serata d’onore” in cui pur con molte libertà si rievoca la figura stessa di Fred Astaire. La partner è questa volta Cyd Charisse, al suo primo ruolo da protagonista, ma già bravissima come si vede in “Girl Hunt”, la divertente parodia dei neri di Mike Spillane piena di bellone, gangster, omicidi, detective privati. Due film conclusivi, testamentali. Perché la grande stagione del musical classico non va oltre la metà degli anni cinquanta, scompare proprio quando sta raggiungendo i suoi vertici più alti, i suoi risultati più complessi e maturi. Ma la fine del musical è solo un trucco, un cambiamento di scena, l’avvio di una trasformazione. Finisce il musical in cui si sono venuti stratificando la storia complessa dello spettacolo e del cinema americano, le scelte stravaganti dei coreografi, le mutazioni genetiche imposte dai registi, le spericolate acrobazie dei virtuosi del pas de deux. Ma non scompare l’anima del musical. Non scompare il sogno. Che prosegue, insopprimibile, sotto altre modalità espressive, sotto altre forme estetiche che conquistano il cuore degli spettatori. Qualche titolo? West Side Story (Robert Wise, Jerome Robbins, 1961) con le guerre tra i Jets e gli Sharks, le bande rivali di Manhattan. Cabaret (Bob Fosse, 1972) con i fumosi club berlinesi dove si intravedono i primi bagliori nazisti. La febbre del sabato sera (John Badham, 1977) in cui Tony Manero con il dito puntato verso il cielo annuncia l’epoca della disco music. Hair (Miloš Forman, 1979) ancora New York tra il Central Park e il Greewich Village, ma pieno di giovani che bruciano le cartoline precetto per protestare contro la guerra del Vietnam. The Blues Brothers (John Landis, 1980), irresistibile omaggio al rock e al blues in un clima demenziale di distruzione del mondo per rifarlo da capo. Senza dimenticare il recente successo di La La Land (Damien Chazelle, 2016) che, girato in esterni a Los Angeles, non rinuncia alla dialettica tra “la vita reale e la vita sognata” ma prende le distanze dai modelli hollywoodiani d’antan per far dialogare il genere con le dissonanze e i compromessi della vita di ogni giorno, nello stesso momento in cui esalta le emozioni e le sorprese di un universo a sé in cui tutto è possibile.

FRED ASTAIRE, QUATTRO PASSI FRA LE NUVOLE

Nella sala del Casinò di Venezia, Fred Astaire invita a ballare la riluttante Ginger Rogers, che lo crede sposato all’amica, mentre lui, scapolo irriducibile, scopre che si è innamorato di lei. Fred comincia a cantare inneggiando all’amore che lo fa sentire in paradiso: “Heaven/I’m in Heaven/And my heart beats so that I can hardly speak/And I seem to find the happiness I seek/When we’re out together dancing cheek to cheek”. La musica si fa lirica e si abbandona al sentimento, consentendo a Fred di lanciarsi in un’appassionata invocazione: “Dance with me/I want my arm about you/The charm about you/Will carry me through to…”, mentre la canzone può riprendere dall’inizio: “Heaven/I’m in Heaven”. “Cheek to cheek” – citato cinquant’anni dopo in La rosa purpurea del Cairo di Woody Allen – è il momento clou di Cappello a cilindro (Mark Sandrich, 1935), uno dei musical più belli degli anni trenta, che sull’onda delle melodie di Irving Berlin riesce a trasformare in straordinarie occasioni di musica e danza la stereotipata artificiosità della trama. Se l’erotismo del musical è solitamente astratto, qui la passione s’impone sull’eleganza formale anche attraverso la sensualità dei movimenti. Nel crescendo della melodia sembra di assistere a una scena di seduzione, come avviene quando lui l’accompagna attraverso un ponte fuori dalla pista da ballo. Nessuna immagine potrebbe essere più esplicita di quelle disegnate nell’aria dal pas de deux che entrambi ballano all’unisono, al di là delle incomprensioni e degli equivoci di prima. Grazie alla danza, la favola s’impone ancora una volta. Alla fine Fred e Ginger si appoggiano alla balaustra della terrazza, gli occhi lucidi, come se avessero fatto l’amore.

La grande affermazione di Cappello a cilindro inaugura il momento magico della coppia, uno dei fondamentali punti di riferimento, assieme a Gene Kelly e Jacques Demy, della mostra parigina. L’universo sofisticato dei film precedenti cede ora alla quotidianità di Follie d’inverno (George Stevens, 1936), in cui sono due americani come tanti appena usciti dalla crisi. Il virtuosismo di Fred Astaire strappa l’applauso in “Bojangles of Harlem” in cui con la faccia dipinta di nero balla con tre silhouettes che riproducono la sua figura e ora si sintonizzano sui suoi passi, ora ballano da sole. Quando dopo una lunga separazione si rincontrano sul set di I Barkleys di Broadway (Charles Walters, 1949), Fred ha cinquant’anni, Ginger trentotto. Non è stato facile convincerli a tornare assieme. La storia sembra fatta apposta per il gioco delle allusioni maliziose. “Non sapresti neppure attraversare il palcoscenico senza di me”, dice lui, “non c’è gesto che tu faccia che non hai imparato da me”. E lei: “Tu mi hai sempre ritenuta una cosa dovuta. Ma ora è finita: imparerò a stare sulle mie gambe come persona e come attrice”. Il numero più esplosivo è il frenetico “Bouncin’ the Blues”, ritmato con aggressiva precisione. Ma l’addio della coppia è la replica di “They Can’t Take That Away From Me” che viene da Voglio danzare con te del ’37, un modo per chiudere per sempre, ma anche per ricordare con struggente partecipazione un momento irripetibile della loro vita e della loro carriera.

Se in Ginger Rogers prevalgono ormai le ambizioni dell’interprete drammatica o brillante, protagonista di numerosi film, Fred Astaire vola da un titolo all’altro, sempre uguale e sempre diverso, fedele alla sua caratteristica di danzatore creativo. Superare le formule, fondere il classico e il moderno, l’aplomb europeo e il gusto americano, è stato sempre il sogno di quest’uomo che ha fatto sognare il mondo. Sempre autore oltre che ballerino delle sue esibizioni, perché, sia o no accreditato come coreografo, si deve a lui la complessa strategia delle performances così semplici e così eleganti, nonostante la sapiente ricercatezza. Senza dimenticare la tenace applicazione, il suo irriducibile perfezionismo. “Non ho mai voluto dimostrare nulla”, ha detto più volte. In realtà non c’è nulla da dimostrare, basta ballare, e il resto viene da sé.

LA FABBRICA DEL MUSICAL

 

La mostra “Comédies musicales, la joie de vivre du cinéma” (19 ottobre 2018-27 gennaio 2019) alla Cité de la musique-Philharmonie de Paris, l’appassionante full immersion nell’universo del musical a cura di N. T. Binh alias Yann Tobin, è stato l’evento cinematografico parigino di maggior successo degli ultimi mesi. Subito dopo un’intera parete di manifesti dai colori sgargianti, si entra nella sala dove sul grande schermo sfilano le sequenze memorabili del genere. Si aprono a ventaglio altrettanti spazi dedicati alle varie componenti della fabbrica del musical, dalle voci degli attori a quelle dei doppiatori, dal trucco per ballare sul soffitto ai costumi di Cyd Charisse e Catherine Deneuve. Se vogliamo tentare qualche passo di tip tap sull’aria di I Love Paris di Cole Porter, Fabien Ruiz, il coreografo della sequenza finale di The Artist, ci dà una mano nel suo atelier dietro lo schermo. Molto seguita l’ampia retrospettiva allestita per l’occasione dalla Cinématèque Française, pescando dal vastissimo repertorio dei titoli imperdibili e delle sorprese più o meno clamorose. Il catalogo della mostra, pubblicato con lo stesso titolo da La Martinière insieme alla Philharmonie de Paris (2018, pp. 216, euro 35,00) e curato anch’esso da N. T. Binh, intreccia abilmente la prospettiva storica dalle origini a oggi (il passaggio da Broadway a Hollywood, le canzoni e le sceneggiature, l’incursione a Bollywood dove la musica domina ma non c’è il musical come genere a sé, l’impatto delle nuove tecnologie e così via) con una ricognizione a tutto campo nella gamma ricchissima e diversificata dei talenti e delle tecniche che il musical richiede. Le interviste con Damien Chazelle, Lambert Wilson, Michel Legrand, Julie Andrews, Deborah Landis, Fabien Ruiz, Marni Nixon (il soprano che ha doppiato le grandi star) animano la fabbrica del musical con la vivacità delle esperienze personali e degli aneddoti curiosi. Il dossier “Perénnité d’un genre: le musical”, apparso nel numero di “Positif” dell’ottobre 2018, integra lo splendido volume con gli interventi di e su coreografi, cantanti, compositori, parolieri, registi, attori, ballerini. Dopo l’omaggio a Jacques Demy e all’influenza che la straordinaria modernità di Les parapluies de Cherbourg (1964) ha esercitato sul musical francese contemporaneo, un paio di saggi sono dedicati alle interferenze vivacissime e ininterrotte fra palcoscenico e schermo, un percorso che da tempo viaggia nei due sensi da quando si sono moltiplicati gli spettacoli teatrali ispirati ai film, tra cui non pochi italiani da Le notti di Cabiria di Federico Fellini a Passione d’amore di Ettore Scola.