Karol, il nostro Karol, se ne è andato. E dico il nostro perché questo giornale non sarebbe stato quello che è stato senza di lui.Vi ha scritto dal primo numero; e poi sempre, portando in queste pagine la ricchezza delle storie del mondo, di cui Karol è stato, non solo un grande narratore- e anzi esploratore in avanscoperta – ma anche figlio, nel senso di cittadino internazionale. Più che per via della sua patria incerta, perché fino in fondo un internazionalista.

Era nato in una di quelle regioni dell’Europa che hanno visto i propri confini continuamente cambiati, in un tempo in cui comunque ogni paese era attraversato da divisioni ben più profonde di quelle geografiche: Lodz, Polonia dopo l’indipendenza conquistata dopo il crollo dell’impero austroungarico nel primo dopoguerra; russa dopo la breve occupazione sovietica del ’39; poi subito raggiunta, nel ’41, dall’invasione tedesca. Ma l’Urss, per il ragazzo Karol, che nell’ élitario liceo della sua città natale aveva stabilito qualche legame coi comunisti, era ancora e pur sempre il paese dove era stata fatta la grande rivoluzione, quello di cui, diciassettenne, si sentiva, per ragioni ideali, cittadino.

Ed é nell’Armata rossa che ragazzo ha combattuto i nazisti, ferito per sempre a un occhio. Poi, per anni, costretto a scoprire il lato oscuro, e prima non sospettato, del regime che pure l’aveva attirato: la deportazione nella sperduta Siberia, fra Tiumen e Omsk, assieme a un milione di polacchi considerati infidi da Mosca; il campo di concentramento, poi, dopo la guerra, di nuovo a Rostok sul Don, prima di tornare ad essere polacco.

Infine, con una borsa di studio, a Londra, e a Parigi, apolide, duro nella sua critica ai regimi dell’est, ma pur sempre un comunista. Un ragazzo del Komsomol, così l’abbiamo sempre considerato. Del Komsomol quando questo significava qualcosa per tutti noi.

Dire che Karol è stato un grande giornalista, autore dei reportage più significativi in ogni parte del mondo, scritti per i settimanali francesi che sono stati scuola per tutti noi – l’Express prima, il Nouvel Observateur poi – a me pare riduttivo. Karol noi lo abbiamo sempre considerato un nostro compagno, un militante de Il Manifesto che non è stato essere solo giornalista.

Nelle tormentate vicende che hanno in questi decenni investito i comunisti Karol ha continuato a cercare: un «altro comunismo» nella Cina di Mao, percorsa per quattro lunghi mesi nel ’65 per scrivere il suo primo libro su quel paese; e poi alle prese con la «seconda rivoluzione», quella culturale, che ci affascinò perché denunciava la burocratizzazione che uccideva il partito, il cui leader, Mao, aveva avuto il coraggio di dire: «bombardate il quartier generale». Furono anche illusioni, ma erano segnali preziosi per chi come noi sperimentava il grigio, progressivo appannarsi dei nostri partiti comunisti.

Gli anni ’60 furono anni di speranze, non a caso sfociati nel grande sessantotto. C’era stata la rivoluzione cubana, «i guerriglieri – come recita il titolo di un altro libro di Karol – erano andati al potere». Fidel aveva 41 anni, la sua era stata un’impresa inaspettata e straordinaria, ricordo ancora quando Karol, che proprio in quegli anni era diventato il compagno di vita di Rossana, tornò dal viaggio che nell’isola liberata dalla dittatura aveva compiuto con lei: su e giù insieme a Castro su una jeep, a perlustrare il paese della prima rivoluzione vincente del continente sudamericano.

Il manifesto, allora, ancora non era nato, ma è stata forse la curiosità, e assieme l’attezione critica di Karol, che ha fatto nascere così questo giornale: entusiasta, curioso, e assieme critico. La firma di Karol sulle nostre pagine è stato un motivo di orgoglio, quasi – direi – il segno di uno status conquistato: perchè lui scriveva per il nostro foglio extraparlamentare e assieme per uno dei più noti settimanali francesi. Ma era Il Manifesto la sua vera casa. Vorrei, a nome di tutti noi, non solo stringermi a Rossana che ha perduto il compagno della sua vita, ma anche ringraziarla perché ci ha «regalato» Karol.