Ci si abitua a tutto. Anche a vedersi sfrecciare accanto cartoni di pizza e vassoi di sushi a bordo di biciclette guidate da ragazzi con zaini dai colori sgargianti, a lasciarsi trasportare in giro da utilitarie convertite in taxi, dormire in camerette per gli ospiti trasformate in ostelli per turisti. Questa casa non è un albergo? Non si dice più. Si dice glovo per takeaway, driver e non tassista. È l’economia dei «lavoretti», a cambiare è soprattutto l’organizzazione del lavoro, quindi la vita delle persone.

C’È CHI ha iniziato a ricucire le loro storie, come ha fatto la giornalista americana Sarah Kessler, che nel libro Gigged attraversa la Silicon Valley per arrivare alle piattaforme di prestazioni gestite tramite app, o Callum Cant, ex guidatore di Deliveroo, che nel suo Riding for Deliveroo ha raccontato di un movimento sotterraneo di rivolta che passa per chat transnazionali e crittografate. Gli economisti Nicolò Andreula e Vera Sprothen l’hanno chiamata flow generation e hanno deciso di scrivere una guida per orientarsi nel caos dell’imprevedibilità. L’antropologa Mary L. Gray e lo scienziato computazionale Siddharth Suri hanno inventato l’espressione «lavoro fantasma» e ne hanno scritto in Ghost work: how to stop Silicon Valley from building a new global underclass.
È in questo scenario, seppur con intenzioni del tutto diverse, che si muove Voci da Uber. Confessioni a motore, volumetto pubblicato dall’editore Mucchi (pp. 161, euro 15) all’interno della collana Diorami curata da Massimiliano Borelli. Dentro ci sono gli appunti di Maria Anna Mariani, nata nel 1982 (già autrice per Exòrma del quaderno di viaggio Dalla Corea del Sud) e attualmente a Chicago, dove insegna letteratura italiana all’università.

MARIANI raccoglie qui gli esiti di un esperimento sociale dai tratti vagamente antropologici: muoversi da una parte all’altra della città, su quanti più Uber possibili, per farsi un’idea dell’umanità alla guida, e in fin dei conti di cosa siamo diventati. Nata appena dieci anni fa, Uber «non è solo una multinazionale di successo installata negli smartphone o un servizio di taxi alternativo» commenta l’editore nella quarta di copertina «è un universo polverizzato in migliaia di meteoriti in movimento, a bordo dei quali s’innesca una reazione chimica sempre diversa tra autista e passeggero». È il presupposto della confessione – ciò di cui l’autrice va in cerca nei suoi tragitti, correndo il rischio di restare, talvolta, delusa. Non tutti hanno voglia di parlare, di rispondere a domande non richieste. C’è chi a sua volta dispensa quesiti, chi preferisce restare in silenzio, chi tenta un approccio sessuale.

Nella maggior parte dei casi, comunque, servono pochi minuti per trasformare l’abitacolo di una Ford nera, quello di una Chevrolet bronzo, nel setting perfetto per una psicoterapia arrangiata e ambulante. Non fosse altro che per lo specchietto – «lo specchietto è dove si incontrano gli sguardi: ci fissiamo tutto il tempo, scrutando la screziatura delle iridi e a tratti risalendo fino alla curva pelosa delle sopracciglia. Secondo Diego se guardi qualcuno negli occhi capisci subito com’è».

L’AUTRICE TRASCRIVE per filo e per segno il disincanto che sopravvive al processo d’ascolto degli altri, e tra le righe ci accenna di sé, dei suoi genitori e delle incertezze che non ha voglia di sviscerare davanti a una Chicago che si muove e cambia forma dall’altra parte del finestrino. Ci lascia così una mappa di conversazioni introspettive, intermittenti, raccolte in capitoli brevi, sempre introdotti da indicazioni essenziali sul tragitto, la durata del percorso, il modello dell’auto, la media delle valutazioni riportata sull’app, lo stato della viabilità. Il traffico può diventare incredibilmente «efferato», «noncurante», «bonario», «amabile», quasi a prolungamento d’uno stato d’animo, di un’atmosfera che si respira comune. Nei pensieri di chi guida ci sono famiglie spezzate, nipoti da rivedere, passati che tornano e dolori del corpo. C’è chi fa anche l’assicuratore, chi è appena stato licenziato, chi è scappato da una dittatura, e chi «proprio non può tornare». Sono uomini e donne arrivati spesso da un’altra parte, figli permanenti e nonne part-time, madri che vorrebbero lasciare tutto e andare via, trasferirsi dove fa più caldo. Mariani ci consegna i frammenti di un’umanità sgretolata, scomposta, sostituibile, globalizzata, sempre pronta a tenere l’ordine del discorso in superficie anche quando ha l’esigenza di indugiare in profondità, rivelare le sue storie atroci.

NE POSSIAMO USCIRE illesi o senza alcuni strati – «sono uscita dalla sua macchina come spellata, quasi fossi diventata tutt’uno col telaio di quella sua Toyota Camry squamata di ruggine» scrive l’autrice a proposito di uno degli incontri più intensi – ma l’impressione è che dopo quaranta minuti tutto torni come all’inizio, che niente sia accaduto davvero. Al netto dell’accountability, delle stelle che ci si affida una volta sbattuto lo sportello, ci si mette a nudo soprattutto davanti alla certezza di non rivedersi. Del resto, il guadagno di un lavoretto sta tutto nello scarto d’indipendenza, nel contentino di autogestirsi il tempo, il sogno di sparire. «Be your own boss, promette Uber agli aspiranti autisti» e tutti, più o meno, ci credono.