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ESP-Disk, visioni jazz

ESP-Disk, visioni jazzBernard Stollman, fondatore della ESP-disk

Anniversari/Cinquantacinque anni fa nasceva l’innovativa etichetta Probabilmente la prima etichetta indipendente di sempre, di sicuro la più libera ed irriverente. Cinquantacinque anni fa, nel 1963, nasceva a New York la ESP-Disk di Bernard Stollman, label leggendaria […]

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 13 ottobre 2018

Probabilmente la prima etichetta indipendente di sempre, di sicuro la più libera ed irriverente. Cinquantacinque anni fa, nel 1963, nasceva a New York la ESP-Disk di Bernard Stollman, label leggendaria la cui affascinante storia è troppo spesso dimenticata nelle celebrazioni della stagione più densa ed emozionante della controcultura statunitense.
Alla ESP sono bastati meno di dieci anni per cambiare la musica, inventando e favorendo la diffusione di generi nuovi e sconosciuti, scoprendo artisti follemente geniali e sperimentando forme di promozione innovative e impensabili per il tempo. Il suo suono inconfondibile e lo stile unico hanno influenzato musicisti e produttori in tutto il mondo, aprendo le porte del jazz agli ascoltatori più profani e facendo scoprire derive impensabili ai jazzofili più ortodossi. Il tutto, mantenendo fede a una propria, particolarissima filosofia: mettere la creatività al primo posto, dando voce a chiunque avesse qualcosa da dire e farlo dal basso, ignorando le logiche dominanti nell’industria musicale degli anni Sessanta.
Sono due gli slogan che hanno reso celebre la ESP, definendola nel migliore dei modi: «The artist alone decide what you will hear on their ESP-Disk», massima autonomia all’artista riguardo la sua opera, in tempi in cui erano i boss delle grandi case discografiche ad avere l’ultima parola, e «You never heard such sound in your life», più che un motto una dichiarazione d’intenti: non avete mai sentito un suono del genere in vita vostra.

UNA FREDDA NOTTE
La leggenda della ESP inizia una fredda notte di dicembre del 1963, quando Bernard Stollman, giovane avvocato con la passione per la musica e l’esperanto, al Baby Grand Cafè di Harlem si trova ad assistere a un’esibizione di Albert Ayler, pioniere e interprete del free jazz più ribelle e selvaggio. È un colpo di fulmine: una jam session estrema, da togliere il fiato. La stessa sera, parlando con Ayler, lo convince a registrare per lui, per l’etichetta che qualche mese prima aveva fondato nel maldestro tentativo di diffondere i princìpi egualitari e universalistici dell’esperanto attraverso la musica. Spiritual Unity, pubblicato l’anno successivo, rappresenterà l’inizio di un’epopea unica e avvincente.
Il free jazz era l’espressione artistica che più fedelmente rispecchiava gli infuocati anni delle rivendicazioni degli afroamericani, di Malcolm X e del Black Panther Party; musica umorale, incontrollabile, che non accettava guide e che non scendeva mai a compromessi. Gli artisti della New Thing usavano l’improvvisazione per scatenarsi e contestare, rompere schemi e, perché no, emanciparsi dal jazz dei padri. Era musica nera e, a qualcuno negli Stati Uniti di quegli anni, faceva paura. Di sicuro non a Stollman, tra i primi a percepirne la potenza espressiva e la carica emotiva. Nel giro di qualche mese gli studi della ESP diventarono un centro di creazione artistica vitale attivo giorno e notte. La totale libertà che Stollman concedeva ai suoi artisti era un’eccezione che attirava sia i debuttanti, che non potevano chiedere di meglio, che gli artisti già affermati, per i quali era un lusso raro da non lasciarsi scappare.
Nel solo 1965, seppur con fondi limitati e sostenuta solo dal passaparola e da alcune radio indipendenti, l’etichetta di Stollman riuscì a pubblicare quindici lp: da Ornette Coleman a Sun Ra, dal New York Art Quartet a Pharoah Sanders, passando per giovani sconosciuti alle prime armi come Lowell Davidson, Byron Allen e, qualche anno più tardi, un giovanissimo Gato Barbieri.
I dischi ESP trasformavano i negozi di dischi con copertine spiazzanti: scarabocchi psichedelici, oscuri disegni a carboncino e grafiche di forte impatto visivo. In sfregio alle logiche di mercato, spesso autore e titolo dell’album comparivano solo nel retro copertina.
Stollman, però, non voleva farsi portavoce di un solo genere, né che la sua creatura diventasse un’etichetta di nicchia, autoreferenziale. Il suo obiettivo era documentare la propria epoca, e per farlo cercava musica che rispecchiasse la sua idea anarchica di arte, allergica a classificazioni e prevedibilità.

AL POSTO GIUSTO
New York era il posto giusto, l’immaginazione al potere invadeva ogni campo artistico. Fenomeni come la poesia beat, la psichedelia, l’attivismo contro la guerra in Vietnam e le derive più assurde e stonate del rock e del folk non potevano sfuggire a orecchie così attente: Stollman decise di ampliare – alla sua maniera – i confini dell’etichetta.
La prima occasione di uscire dal «seminato» del free jazz arrivò nel 1966, con la raccolta The East Village Other, ideata per raccogliere fondi in favore dell’omonima rivista alternativa che testimoniava l’estasi sotterranea del periodo. L’album, oggi vero e proprio oggetto di culto, si proponeva di raccogliere le diverse voci che componevano la scena del periodo, in un collage di parole, musica e poesia. Non si può dire che l’obiettivo non sia stato raggiunto: in quasi mezz’ora di registrazione si possono sentire, in ordine sparso, le voci di Allen Ginsberg e Peter Orlovsky declamare lisergici mantra pacifisti, i Velvet Underground cimentarsi in un brano strumentale, Noise, che rappresenterà la loro prima incisione su nastro in assoluto e Tuli Kupferberg, fondatore dei Fugs – band di poeti anarchici convertiti alla musica, autori di un rock dissacrante e vizioso – dare il suo contributo con un inno pacifista nell’anniversario del bombardamento di Hiroshima. Anche Andy Warhol risulta accreditato nel disco, come autore di una misteriosa traccia muta.
E proprio i Fugs, assieme ai Pearls Before Swine di Tom Rapp e gli Holy Modal Rounders capostipiti dell’acid-folk, saranno protagonisti della seconda fase della ESP, portandola addirittura a comparire nelle classifiche ufficiali degli album più venduti, il picco di popolarità più alto mai raggiunto dall’etichetta.
Sono tanti gli artisti passati per la ESP, personaggi stravaganti e iconoclasti, celebrità di passaggio o sconosciuti diventati vere e proprie icone. Da William Burroughs a Timothy Leary; da Mij, misconosciuto chitarrista dalle doti canore «aliene», a Karel Velebny, jazzista ceco scovato da Stollman durante un viaggio in Europa, fino a Charles Manson, di cui la ESP pubblicò un album registrato prima di entrare in carcere, giudicandolo «storicamente e artisticamente rilevante» ma cedendo tutte le royalties ai parenti delle vittime della famigerata Family.
Purtroppo, il sogno della ESP non durò a lungo. Le esplicite posizioni politiche di alcune band attirarono le attenzioni della censura governativa, e la decisione di Stollman di rifiutare un’offerta da parte della Warner attivò un aggressivo boicottaggio da parte delle major, che sommersero le uscite ESP rendendole irreperibili nei negozi. Il colpo di grazia definitivo lo diede l’incontrollabile fenomeno del bootlegging, al tempo non vietato, che permise la diffusione sul mercato di copie false e autoprodotte che sottrassero introiti fondamentali all’etichetta.
Poco prima di morire, nel 2015, Stollman ha provato a riaprire l’etichetta, con scarsa fortuna. Il suo obiettivo, comunque, lo aveva già raggiunto: niente, come la ESP-Disk, ha saputo raccontare l’ebbrezza artistica, le peculiarità e le contraddizioni che hanno reso unico quel periodo, nel bene e nel male. D’altronde, Stollman era follemente innamorato del suo tempo, almeno tanto quanto del free jazz. E, in effetti, che cos’è l’improvvisazione se non estremo amore per il presente?

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