l fotografo francese Frédéric Chaubin, nei sette anni che impiegò per il suo reportage sull’architettura sovietica post-stalinista, non si spinse oltre Mosca, e così non visitò la Siberia, ma neppure sostò troppo in una regione. Tuttavia, quando uscì il suo CCCP, Cosmic Communist Constructions Photographed (Taschen, 2011), ci fece scoprire un mondo inconsueto di architetture così radicalmente estranee ai canoni del Moderno da suscitare una particolare impressione.
Per comodità oggi le facciamo rientrare nelle categorie del Brutalismo o del Postmoderno, e i numerosi studi che da allora si sono prodotti hanno dimostrato quanto impegnativi e vasti fossero stati i programmi di urbanizzazione nel periodo sovietico, di quali caratteri originali fossero le architetture che li componevano, come queste influenzassero i paesi satelliti, ma soprattutto come per diversi storici locali tutto ciò, senza troppe distinzioni, si definisca: Modernismo sovietico.
Da circa un decennio sono in esponenziale crescita le ricerche su edifici e monumenti costruiti dal periodo del disgelo (1955-’63) alla stagnazione di Breznev (1974-’82) fino agli anni novanta, quelli della perestrojka: ultima fase prima della fine dell’URSS. In ognuna di queste ricerche la fotografia gioca un ruolo centrale, ma non sempre le sue intenzioni coincidono con le finalità di chi considera l’architettura sovietica innanzitutto un patrimonio a rischio, quindi da tutelare, come stabilì la Dichiarazione di Mosca (2006), il cui elenco degli edifici da salvaguardare andrebbe presto aggiornato comprendendo oltre a quelli moscoviti degli anni trenta quelli successivi del dopoguerra.
Più nello specifico, però, la fotografia rappresenta il primo vettore che alimenta un «nuovo esotismo», come Alex Bykov e Ievgeniia Gubkina hanno scritto nel recente Soviet modernism, brutalism, post-modernism. Buildings and structures in Ukraine 1955-1991 (Dom Publishers, pp.264, 230 illustrazioni, euro 78,00). L’immagine fotografica, infatti, estetizza il paesaggio urbano restituendolo «ancora più interessante e particolare a causa delle difficili condizioni economiche che esistono in tutte le regioni post-sovietiche». Le città mostrano il loro aspetto decadente, marcato da logore tipologie e infrastrutture, messe ai margini dalla transizione capitalista e dove tutto sopravvive come «frammenti di un possente passato e di una civiltà scomparsa».
Accade così che l’architettura modernista sovietica, «spesso descritta come radicale, futuristica, cosmica, ottimista, ingenua, pazza e divertente», sia diventata, come i due autori ucraini raccontano, «un prodotto popolare per l’esportazione».
Ne è un esempio il fotografo russo Alexander Veryovkin, che ha intrapreso un lungo viaggio per fotografare gli agglomerati residenziali delle città siberiane di Omsk, Norilsk, Krasnoyarsk, Irkutsk, Yakutsk, Novisidirsk. In Concrete Siberian Soviet Landscapes of the Far North (Zupagrafika, pp.160, illustrato, euro 20,00), l’obsolescenza dei superblocchi in cemento sospesi tra cielo e terra perché immersi nella neve indica volumi silenziosi intorno ai quali si aggirano solitarie persone che sfidano le temperature polari. La monotonia dei casamenti costruiti in pannelli prefabbricati è interrotta solo da un monumento a Lenin, da una moschea, oppure da un centro sportivo. Decisivi, forse, sono stati i suoi studi in astrofisica, ma il pietroburghese Veryovkin sembra solo attratto dalle relazioni spaziali tra gli oggetti davanti a sé e il tempo necessario per catturarli in uno scatto.
Il risultato è un effetto perturbante (Unheimlich), nel significato di «straniamento» datogli da Anthony Vidler, che nulla pertanto aggiunge alla magra introduzione che l’editore ha affidato a Konstantin Budarin. Lo scrittore moscovita scrive che ciò che Krusciov impose in Siberia fu una «nuova ondata di colonizzazione», che sappiamo non più nel segno dell’ideologia stalinista, ma rispondente alle «riforme di struttura» del suo corso revisionista. Per aumentare lo sfruttamento delle risorse minerarie della regione era necessario un numero proporzionato di lavoratori, così i suoi piani quinquennali programmarono l’edificazione di densi ed estesi abitati di edifici lamellari costruiti secondo le regole della serialità industriale.
Una soluzione ben diversa, pur alle stesse latitudini, della «città sotto una cupola» che i canadesi proponevano nel 1958 a Frobisher Bay, senza averla mai realizzata, ma che Budarin segnala come il «sogno fantascientifico» che avrebbero dovuto seguire anche i sovietici. D’altronde non furono loro i primi a conquistare lo spazio? Purtroppo i fenomeni urbani e gli eventi della storia meriterebbero altre riflessioni e confronti. La fotografia a corredo di queste considerazioni non dovrebbe essere usata solo per illustrare «pezzi estetici rappresentativi di un’utopia perduta».
Come osservazione critica è piuttosto esemplare il lavoro del fotografo polacco Rafal Milach e del suo collettivo Sputnik Photo. Nel suo reportage dall’Ucraina Milach ha scritto che seppure Hitler e Stalin se ne sono andati via da tempo, lì «la terra fertile continua a produrre il suo raccolto: successivi grumi di cemento (…) come se il cemento non solo riempisse uno spazio esterno ma anche interno».
L’Ucraina è un ottimo punto di osservazione e di riflessione per la storia dell’architettura sovietica del secondo Novecento perché, come ricorda ancora Milach, sulle sponde del Mar Nero «i vacanzieri sovietici hanno lasciato l’architettura, la mentalità e il sentimento sovietici».
Per questa ragione abbiamo segnalato all’inizio il libro di Bykov e Gubkina. La ricca raccolta delle immagini scelte per il loro testo critico conferma questa tesi e aiuta a correggere una serie di interpretazioni.
La prima riguarda la questione dello «sfasamento culturale» nei confronti dei paesi occidentali. Mentre in Europa i giovani brutalisti, pur critici del Movimento Moderno, mantenevano aperto il dialogo con i suoi protagonisti, nel disgelo di Krusciov la nuova leva degli architetti, ai quali s’impose il ritorno ai veri ideali comunisti e leninisti, quindi a quella «miniera di creatività» rappresentata dall’architettura costruttivista e d’avanguardia, non ebbero alcun dialogo con gli architetti «stalinisti», rei di avere aderito al realismo socialista.
Certo le loro case a cinque piani denominate khrushchevki sono indubbiamente inferiori ai complessi residenziali del dopoguerra dell’anglo-georgiano Berthold Lubetkin a Londra, ma si poté costruirle in massa in tutta l’URSS e «l’etica segnò una schiacciante vittoria sull’estetica».
Nel 1964, con la rimozione di Krusciov e l’ascesa di Breznev, si ebbe l’inizio della fine del disgelo. L’ottavo piano quinquennale (1966-’70) vide la più alta crescita economica nella storia dell’Unione Sovietica e la modernizzazione conseguente alle riforme economiche di Yevsei Libermann si riflesse nelle lastre rettangolari dell’architettura International Style, ma con altezze molto inferiori degli esempi intercontinentali a causa della limitatezza dei materiali e delle tecnologie.
Mentre, però, in Europa occidentale durava un dibattito intorno al ruolo dell’architetto nella società e sulle contraddizioni del capitalismo, i «nemici» in URSS erano di volta in volta gli eclettici, i costruttivisti, gli stalinisti, ecc., ma mai lo stato-cliente: e da qui la seconda differenza con gli architetti occidentali. Ignorati i problemi sociali, la caduta nell’estetismo e nell’imitazione fu inevitabile. Uno stato che perdura e dal quale l’architettura russa contemporanea stenta ancora a uscire.