E’ tempo di rivincite per Magno Felice Ennodio. Ultimo frutto delle scuole di retorica della Gallia Cisalpina, diacono a Milano e infine vescovo di Pavia (513-521), questo «gentleman of the Church» – così il sottotitolo della biografia di Stefanie Kennell – è stato per secoli emblema dell’esasperato concettismo della latinità tardoantica, e la sua «sottigliezza a stento intollerabile» (parole di dom Germain Morin, editore benedettino dei sermoni di Cesario di Arles) ha a lungo tenuto alla larga esegeti, traduttori e lettori. Da circa un ventennio, tuttavia, anche Ennodio partecipa ai dividendi dell’esplosione d’interesse per il Tardoantico, e il suo ostico latino ha risvegliato le attenzioni di una ristretta ma agguerrita pattuglia di studiosi, attivi soprattutto fra l’asse Napoli-Pavia, la Francia e il mondo tedesco, che hanno cominciato ad aggredire l’ampio e per molti versi caotico corpus del vescovo pavese – epistole libelli discorsi, oltre a due libri di carmi –, per il quale dipendiamo ancora, in larga parte, dalle edizioni critiche tardo-ottocentesche di Wilhelm von Hartel e Friedrich Vogel.
Ora, con i due volumetti da poco apparsi per i tipi de La Vita Felice, Epitalamio per Massimo Vir spectabilis (pp. 188, € 12,50) e La piena del Po ( pp. 116, € 10,00), dedicati ai carmi 1, 4 e 5 Hartel e curati rispettivamente da Marino Neri e da Fabio Gasti (fra i principali protagonisti, quest’ultimo, della «rinascita» pavese di Ennodio dell’ultimo ventennio), la parabola della fortuna del vescovo-poligrafo può dirsi definitivamente rovesciata: grazie all’introduzione, all’ampio apparato di note e soprattutto alla traduzione a fronte, anche a lettori non necessariamente specialisti è concessa infatti – ed è forse la prima volta – l’opportunità di curiosare felicemente nello scrittoio ennodiano.
Piccolo gioiello di polimetria, l’Epitalamio composto per il matrimonio del nobile Massimo si misura con una tradizione, quella del carme nuziale, vincolata da una rigida precettistica retorica e da un canone letterario di pesi massimi, da Catullo a Sidonio Apollinare; eppure Ennodio riesce a innovare il canovaccio consueto, specie nella sezione esametrica, dove una bellicosa Venere scatena Cupido contro la frigida virginitas di un Massimo quanto mai riluttante alle nozze. Gli ingredienti della poesia cristiana tardoantica, si sa, provengono in gran parte dalla tradizione pagana, che non è rifiutata a priori, ma sottoposta a sottili strategie di risemantizzazione: lo mette bene in luce il commento di Neri, che setaccia minuziosamente i prelievi dalla tradizione epitalamica (soprattutto Stazio e Claudiano) e dall’onnipresente Virgilio. Ma oltre che per la ricca messe di intertesti – «parti illese che i cristiani distaccavano per marinarle nella salamoia della loro nuova lingua» secondo il des Esseintes di Joris-Karl Huysmans, che in À rebours si delizia dei versi «torpidi e freddi» di Ennodio e degli altri poeti latini della decadenza –, l’epitalamio ennodiano si segnala anche per l’attenzione rivolta a problemi di stretta attualità, come quello del depopolamento dell’Italia ostrogota: di qui il forte biasimo, obliquamente attribuito a Cupido, per il «fervore assurdo» dell’ideale ascetico-verginale, che porta i giovani a imitare comportamenti adatti piuttosto a «vecchi tremolanti».
Come rivela già il titolo tramandato dai manoscritti, Itinerarium, anche il breve componimento sulla piena del Po s’inserisce nel solco di un genere del tutto convenzionale, quello del carme odeporico, anche se la letteratura di viaggio rappresenta solo uno – e forse non il principale – dei modelli del carme, che sottintende anche la catabasi all’Averno del sesto libro dell’Eneide e la vicenda, ormai ampiamente cristianizzata, del profeta biblico Giona. È l’esito della tipica versatilità ennodiana, che anche in un poemetto ad altissimo coefficiente di letterarietà non rinuncia a imbricare tradizione poetica pagana e allusioni al messaggio cristiano, in un’ottica tesa a compensare le vene che nutrono la sua ispirazione. A ragione, Gasti inquadra il carme alla luce del trionfo della «modalità descrittiva su quella diegetica» tipico della letteratura tardolatina: l’esile filigrana narrativa – nel pieno di un’esondazione, il poeta deve attraversare il Po per recarsi da una parente che ha appena perso il figlio – si rifrange infatti in singoli quadretti sensazionali, come quello dei tetti che scivolano sul fiume o dei pesci che, vagando nelle case allagate, pranzano sulle tavole al posto degli abitanti. Nemmeno le drammatiche conseguenze della piena su campagna, uomini e animali inducono dunque il poeta a desistere dall’usuale, estenuata stilizzazione, com’era del resto chiaro fin dall’ampio proemio (9 esametri su un totale di 52), dove è alla «corrente benevola» dell’Ippocrene che Ennodio chiede aiuto per cantare «le montagne di flutti» del Po. È lo stesso effetto lugubre che l’Auerbach di Lingua letteraria e pubblico scorgeva nel manierismo di Sidonio Apollinare, e da cui trapela l’«isolamento disperato» di un letterato che trova diletto in simili espressioni «mentre la sua esistenza corre il rischio estremo».
Certo, i nodi di Ennodio (la paronomasia è già di Arnolfo di Lisieux, XII secolo) possono talvolta risultare indigesti, ma il «gioco difficile» – ancora Auerbach – della sua poesia può incontrare oggi il favore di nuovi iniziati.