A Downing Street si respira l’aria di Pompei. Mentre leggete queste righe, la fine del premierato di Boris Johnson potrebbe essere un fatto compiuto. Non ancora mentre le scriviamo, benché la conta delle dimissioni dal suo stesso governo ammonti a trentacinque: una slavina protrattasi nelle ultime ventiquattro ore. Sono stati Rishi Sunak, il ministro delle finanze e quello della sanità Sajid Javid ad aprire le danze, già martedì sera, con due plumbee lettere di dimissioni in cui sparano a zero contro «l’incompetenza, l’improprietà e la mancanza di serietà» di Johnson. Javid ha rincarato la dose nel pomeriggio ai Comuni, con un attacco devastante. Ovviamente entrambi si candideranno come successori, quando l’agognato momento verrà.

DUE DEFEZIONI terminali, alle quali qualsiasi altro primo ministro avrebbe replicato con una mesta uscita di scena. Non Boris, notoriamente dotato di un ego che si misura in ettari. E che si è asserragliato al civico 10 di «Drowning street» (to drown = annegare) dopo aver sostituito Sunak con l’ex ministro dell’istruzione Nadim Zahawi e Javid con Steven Barclay. Là ha ricevuto uno stuolo di visite di ex adepti decisi a intimargli di mollare, primo fra tutti il “fido” Michael Gove, che lo affiancò nella campagna pro-Leave, per poi silurarne la candidatura a premier nel 2016.

Per quanto abituato a tirarsi su da solo per i capelli, come il Barone di Munchausen, la premiership di Johnson è misurabile in settimane, giorni, forse semplici ore.
Ho un mandato elettorale colossale: lasciatemi lavorare – ha ripetuto lui come un disco rotto. Ma il partito conservatore vede ormai rosso, anzi blu. Si sono resi conto che difenderlo ancora significherebbe – visto netto il vantaggio labour nei sondaggi, le batoste alle ultime suppletive, le feste sotto lockdown – una probabile mattanza alle prossime elezioni.

A MENO CHE non sia lui stesso a indirle, come il non scritto bricolage costituzionale del paese gli permetterebbe teoricamente di fare per evitare che il 1922 Committee – l’organo del partito preposto all’elezione del leader – non cambi le attuali regole. Quelle che permettono a Johnson di non dover sostenere alcun altro voto di sfiducia fino al prossimo giugno. Giacché, com’è noto, è sopravvissuto a un simile voto appena il mese scorso.

La causa scatenante del tentato regicidio è stato l’ultimo caso a sfondo sessuale occorso sotto le volte di Westminster. Johnson aveva dato a Christopher Pincher (pinch = pizzico) un deputato con problemi di alcool e noto molestatore di colleghi, la carica di chief whip (assimilabile a quella di capogruppo), per poi mentire sul fatto che fosse a conoscenza dei problemi del suddetto. L’ultima goccia, quella capace di far traboccare vasi e di bucare rocce.

IN THE NAME OF GOD, go, disse Cromwell al parlamento nel 1653. Lo ripetè Leo Amery a Neville Chamberlain nel 1940, dopo Monaco. Lo hanno ripetuto ieri a Johnson i finora oltre trenta dimissionari dal governo. Gliel’ha detto perfino Michael Gove: la saga sembra finalmente volgere al termine. Ma lascia enormi interrogativi, soprattutto interni. Con un’inflazione all’11 per cento, mai così alta in quarant’anni, e le utenze domestiche che si avvicinano a una media di 4.800 euro annui, l’autunno sarà più bollente dell’estate.

Chiunque sostituirà Johnson di certo tornerà all’austerity e ai tagli alle tasse degli “abbienti” per cui è tradizionalmente noto il suo partito (una delle ragioni per le dimissioni di Sunak, nemico naturale del disavanzo). Gli interrogativi esterni paiono meno imperscrutabili: chiunque sia premier, il paese continuerà a fare la portaerei americana in Europa (e naturalmente in Ucraina).